Alla ricerca di nuovi carcerieri per gli immigrati che respingeremo
Appello al Presidente della Repubblica affiché conceda a Yaeb Sara, il bambino nato in mare durante la traversata dalla Libia verso Lampedusa, la nazionalità italiana.
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Il post di oggi
E' un articolo a firma Barbara
Spinelli pubblicato da Repubblica il 30 Marzo. Uno scritto
analiticamente opportuno per riflettere sugli avvenimenti legati
all'immigrazione, all'intervento in Libia e all'incapacità del Governo
di fronteggiare l'emergenza.
Un saluto
Vladimir
Lampedusa e la sovranità del panico
Sono
settimane che in Italia si guarda a quel che accade in Libia e alla
guerra che stiamo conducendo attraverso un'unica lente: nient'altro è
per noi visibile se non quello che potremmo patire noi, se i fuggitivi
arabi e africani continueranno a imbarcarsi verso le nostre coste. Non
si discute che di Lampedusa assediata, di città italiane più o meno
restie all'accoglienza. Per la verità non si parla di rifugiati ma di
invasori, come se la vera guerra fosse contro di noi.
Il trauma è nostro monopolio, il mondo è un altrove che impaura e
minaccia: da un momento all'altro, il favore di cui gode l'operazione in
Libia potrebbe precipitare. Sembriamo molto lucidi e pratici, ma questo
restringersi della visuale ci rende completamente ciechi: l'altrove
mediterraneo resta altrove, solo la nostra quiete di nazione arroccata e
aggredita ci interessa. Già alcuni parlano di tsunami, ed ecco paesi e
persone degradati ad acqua che irrompe.
Non ci interessa quel che fa Gheddafi (vagamente parliamo di massacri,
in parte avvenuti in parte potenziali). Non ci interessano neanche gli
insorti, le loro intenzioni. Il mondo è in mutazione ma noi siamo lì,
chiusi in un recinto fatto di ignoranza volontaria: come se esistesse,
oltre alla guerra preventiva, un non-voler sapere preventivo.
Credevamo di aver spostato le nostre frontiere più in là, lungo le
coste libiche, ben felici che a gestire l'immigrazione fosse il
colonnello coi suoi Lager, invece nulla da fare. Il muro libico crolla e
i detriti son tutti a Lampedusa e la maggioranza stessa degenera in
detrito: con Bossi che offre come soluzione lo slogan "föra di ball",
con il Consiglio dei ministri che salta, con Berlusconi che di persona
andrà nell'isola campeggiando - ancora una volta - come re taumaturgo.
Lampedusa
è divenuta l'emblema della nostra condizione di vittime, il grido che
lanciamo all'universo. Dice il governo che oggi arriveranno 4 navi per
10.000 posti, ma per tanti giorni non abbiamo visto che l'isolotto
sommerso da grumi informi a malapena identificati con persone. Il fermo
immagine sull'isola - il fotogramma che sospende il tempo creando stasi,
ristagno - è l'arma di un governo che scientemente arresta la pellicola
su questo dramma abbacinante. Lampedusa è agnello sacrificale, ha
scritto su Repubblica Eugenio Scalfari. Tutte le colpe s'addensano
nell'icona espiatoria, e non stupisce il vocabolario sacrificale che
l'accompagna: esodo biblico, inferno, apocalisse. Sguainare la parola
apocalisse è profittevole al capo politico, che pare più forte. Diventa
il kathekon del mondo: trattiene i poveri mortali dal disastro. Così
Lampedusa si tramuta in podio politico: Marine Le Pen, leader del Fronte
Nazionale, già ci è andata, il 14 marzo, ben cosciente che l'Italia è
oggi laboratorio delle destre estreme.
Giustamente
il cardinale Martini mette in guardia contro l'uso dello spauracchio
apocalittico: non ha detto, Gesù, che "fatti terrificanti" verranno ma
"nemmeno un capello del vostro capo perirà"? La paura è comprensibile ma
va affrontata, secondo Martini, con quattro virtù: resistenza, calma,
serietà, dignità. È proprio quello che manca in Italia. Che manca,
nonostante l'attività della Caritas, anche alla Chiesa: con gli
innumerevoli alloggi che possiede, non pare sia decisa a offrirli per i
fuggiaschi, stipati in condizioni non vivibili, privati ora anche di
cibo. Chiara Saraceno ha spiegato bene il paradosso, domenica su
Repubblica: questi alloggi, trasformati in alberghi, godono di sconti
fiscali perché destinati "esclusivamente allo svolgimento di attività
assistenziali, previdenziali". Perché non sono messi subito a
disposizione?
Quando
non c'è serietà le bugie dilagano, le immagini s'adeguano. Si adeguano
nel caso della guerra libica, che non essendo chiamata guerra non può
nemmeno esser pensata a fondo, con conoscenza di causa. Si adeguano nel
descrivere l'Unione europea, su cui piovono accuse talvolta giuste ma
nella sostanza menzognere, da parte di governanti che di tutto son
capaci tranne di pedagogia delle crisi. Se non c'è una politica europea
sull'emigrazione, è perché gli Stati vogliono mantenere per sé
competenze che non sanno esercitare. È contro il proprio panico sovrano
che dovrebbero inveire, non contro Bruxelles: contro l'ideologia del
fare da sé, del "ghe pensi mi", che angustia l'Italia da quasi
cent'anni. In teoria dovrebbe valere il principio di sussidiarietà
(l'Unione decide sulle questioni di sua competenza che gli Stati non
sanno risolvere), ma si esita ad applicarlo. Quanto all'immigrazione, il
trattato di Lisbona prevede che l'Unione decida all'unanimità tra
governi, senza la codecisione del Parlamento europeo, con l'eccezione di
alcune materie in cui il trattato stesso prevede la procedura
legislativa ordinaria: solo in queste materie (non sono le più
importanti) si decide a maggioranza qualificata e dunque si agisce.
Ma
la menzogna decisiva riguarda quel che l'Italia pensa di sé. Alla
radice della cecità, c'è l'illusione di essere una nazione che ancora
può scegliere tra essere multietnica o no. Che non deve nemmeno
chiedersi se stia divenendo xenofoba. In realtà sono 30 anni che siamo
un paese d'immigrazione, con punte massime negli ultimi dieci, e quando
Berlusconi nel 2009 disse che "non saremo un paese multietnico", mentiva
per evitare il ruolo di pedagogo delle crisi. Per negare che la
convivenza col diverso si apprende faticosamente ma la si deve
apprendere: attraverso una cultura della legalità, dello Stato, del
rispetto. Il politico-pedagogo non finge patrie omogenee che rimpatriano
alla svelta bestiame umano, ma governa una civiltà multietnica che da
tempo non è più un'opzione ma un fatto.
Per capire il nostro vero stato di salute conviene leggere il rapporto, assai allarmato, che Human Rights Watch ha
pubblicato il 21 marzo sull'espandersi del razzismo in Italia. Condotta
fra il dicembre 2009 e il dicembre 2010, l'inchiesta raccoglie una mole
di testimonianze e mette in luce cose che sappiamo, ma dimentichiamo.
Raramente il crimine razzista è denunciato come tale, nonostante la
legge Mancino del '93 (articolo 3) lo consideri un'aggravante nei reati:
la disposizione non è però inserita nel Codice penale. Raramente sono
applicate leggi europee e internazionali per noi vincolanti. Infine, né
polizia né magistratura sono formate per affrontare reati simili, e
numerosissimi casi vengono archiviati, specie quando le violenze sono
commesse da forze dell'ordine.
È la retorica che vince sui fatti, scrive ancora il rapporto, e la
colpa è dei politici come dei media. Dei politici, che per primi
"stigmatizzano le persone con stereotipi". Dei media, "a causa della
monopolizzazione dell'editoria radio-televisiva esercitata da
Berlusconi". Il rapporto non risparmia la sinistra, spesso tentata di
equiparare immigrati e criminali.
Continuamente i politici chiedono che immigrati o fuggitivi si
integrino nella nostra cultura, ma è ipocrisia. Primo perché ai
fuggiaschi non vengono dati gli strumenti per interiorizzare la nostra
civiltà, i suoi diritti e doveri. Secondo perché gli italiani stessi -
mal informati, mal governati - ignorano la civiltà sbandierata. Basti un
esempio. Il migrante privo di documento che è vittima di un reato può
richiedere il rilascio di un permesso temporaneo, e rimanere nel paese
per la durata del processo. L'autorizzazione è concessa per periodi
rinnovabili di tre mesi, e revocata a processo finito se il caso è
archiviato. Ma la regola di solito è ignorata, con effetti gravi: il
reato non è denunciato per paura, la fiducia del migrante nello Stato
frana, le mafie diventano rifugi.
Se questa è la cultura politica imperante non sorprende che la nostra
politica estera sia così debole, anche in Libia. Non dimentichiamo che
gli aiuti pubblici allo sviluppo, in Italia, sono crollati. Ristabiliti
dal governo Prodi, da due anni scendono sempre più. In uno studio per
l'Istituto affari internazionali, Iacopo Viciani fornisce dati probanti:
nel bilancio di previsione per il 2011, la cooperazione allo sviluppo è
tra le spese più decurtate, riducendo al minimo il peso italiano nel
mondo. Gli stanziamenti per la cooperazione raggiungeranno nel 2011 il
livello più basso, con una riduzione del 61% rispetto al minimo del '97.
Si dirà che ciascuno taglia, in Europa. È falso: Londra, Stoccolma e
Parigi aumentano gli aiuti malgrado la crisi.
Inutile andare a una guerra quando si conta così poco nella scelta
delle sue già confuse finalità. I governi italiani non sono gli unici ad
aver negoziato con Gheddafi, ma il patto stretto da Berlusconi ha
qualcosa di scellerato. È grazie a esso che dal 2009 sono stati
rimpatriati centinaia di africani giunti in Libia per arrivare in
Europa. Senza distinguere tra profughi e migranti, i fuggitivi sono
stati respinti in Libia ben sapendo cosa li aspettava: autentici campi
di concentramento, dove regnavano tortura, stupri, fame.
Forse è il motivo per cui fatichiamo, non solo in Italia, ad analizzare
questa guerra libica così opaca. A vedere le insidie di un movimento di
insorti che non ha esitato, pare, a uccidere prigionieri africani
sospettati di lavorare per Gheddafi. Molti libici fuggiranno anche dai
successori del colonnello: dai ribelli che stiamo aiutando perché
abbattano il Rais. Forse siamo semplicemente alla ricerca di nuovi
carcerieri per gli immigrati che respingeremo.
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