quarto stato

domenica 24 agosto 2014

Scintille

Eccovi un nuovo racconto breve. Insieme ad altri cercherò il modo di pubblicarli. Il quadro d'insieme vorrei fosse un "occhio gettato sul minuto mondo quotidiano". Vedremo, per intanto buona lettura!

SCINTILLE



Quando il Frecciabianca delle diciannove e quarantacinque superò l’ultimo scambio prima dell’ingresso in stazione, Antonio Mirabella, macchinista da oltre vent’anni, pugliese di origine  ma bolognese per necessità, s’accorse che il treno era troppo veloce per effettuare l’avvicinamento al binario, e la sosta prevista, senza dover innestare la frenata d’emergenza. Perso in uno dei suoi soliti soliloqui, non aveva visualizzato per tempo la spia che segnalava il malfunzionamento del rallentatore automatico. Mai, nella sua lunga e onorata carriera, era incorso in una negligenza così grave. E che avesse la testa per aria se ne accorsero anche i colleghi di lavoro.

Problemi d’amore, come diceva lui per tagliar corto coi compagni, i quali, vedendolo da qualche giorno pensieroso,  scambiandosi occhiatine furbe, gli chiedevano provocatoriamenmte se la signora moglie, religiosa all’ossesso, avesse già iniziato la novena alla Madonna esiliandolo dalla camera da letto. Quella sera, in verità, più che su certi suoi dissidi coniugali che lo tenevano in apprensione, stava riflettendo del mondo e della mancanza d’amore. Questione da massimi sistemi, che tradotta alla sua portata equivaleva, perché gira che gira era quella la fissa, all’immancabile domanda: si può stare senza una donna? In particolare non riusciva a capacitarsi delle parole di un suo collega col quale aveva bevuto un caffè prima di salire sul treno.

 «Io ne faccio senza e vivo bene, anzi benissimo!» gli aveva detto quello ridendo.

Come poteva essere che si potesse vivere bene così, stava chiedendosi raspando con le dita tra i pochi capelli superstiti, che s’accorse d’aver superato il punto in cui doveva rallentare il convoglio.

Urca boia… dove ce l’ho la testa. Mannaggia a me e mannaggia alle donne!” si disse armeggiando in preda al panico sul quadro di comando.

E mannaggia a quel salame… dimmi tu se non è da strampalati, vivere così, senza scintille!”.

In prossimità del binario, pigiò sul pulsante rosso sul quale campeggiava la scritta “freno d’emergenza” e sporgendo la testa fuori dal finestrino pensò: Che Dio me la mandi buona!”.

Allo sfilare del treno, le persone in attesa nella stazione o sui marciapiedi limitrofi al terzo binario dovettero coprirsi le orecchie con tutte e due le mani nell’attimo che il macchinista azionò i freni del convoglio. Sotto i loro piedi tremò la terra, ma sorte peggiore toccò ai malcapitati che se lo videro sfilare davanti respirando a pieni polmoni l’acre odore di ferro incandescente.

Feroce, come l’urlo di un animale mortalmente ferito, l’assordante stridìo dei metalli inondò di scintille la scialba litania della sera, sospendendo per un attimo la vita di ciascuno. Una scena inquietante, sinistra, luciferina, che ricordava certe epiche copertine della Domenica del Corriere illustrate da Walter Molino, con il locomotore trasfigurato nel mostro d’acciaio che, imbrigliato nella sua corsa impetuosa, ruggisce e vomita sugli uomini lampi di fuoco prima di essere vinto.

Affatto epico, invece, fu ciò che dall’esterno del treno nessuno potè udire e vedere, vale a dire il coro di spaventati oh! gridato all’unisono dai passeggeri e le conseguenze che la dura e alquanto improvvida frenata comportò per quelli nelle carrozze già in  fila, uno dietro l’altro, e pronti a scendere, sballottolati prima in avanti, poi indietro e ancora in avanti come tanti pupazzi privi di volontà.


Insonnolito dal viaggio, il professor Valerio Ortese, quarantacinquenne docente universitario e scrittore di un certo successo, aveva da qualche secondo preso posto nello stretto corridoio che separava la doppia fila di sedili. Stufo del viaggio, non vedeva l’ora di scendere. Per questo, contravvenendo alle sue abitudini, contagiato dalla fregola che coglie, in prossimità delle stazioni, i viaggiatori prossimi ad abbandonare le vetture, lasciò in anticipo il suo posto. Quando scoppio il finimondo, era intento a sbirciare fuori dal finestrino. Dapprima barcollò come tutti, ma non avendo alcun appoggio a portata di mano, per la brusca frenata volò in avanti assieme al trolley che stringeva con la mano destra, planando col petto prima addosso a un anziano signore e, poi, di sponda, con la faccia dritto sulla schiena di una giovane donna. Nel secondo violento urto, fu il suo naso ad avere la peggio, schiacciato tra la montatura degli occhiali e la scapola dell’incolpevole passeggera su cui era atterrato.  

Piegato sulle ginocchia, dolorante prese a cercare con le palme delle mani gli occhiali finiti sotto qualche sedile o tra i piedi di chi gli stava attorno. Rialzatosi, dopo aver con disappunto constatato l’irreparabile danno alla montatura e ad entrambe le lenti, mortificato profuse le sue scuse ai due occasionali compagni di viaggio su cui era malamente ruzzolato. Il vecchio, sdegnato per il colpo subito, rispose emettendo uno stizzoso grugnito. La donna, invece, guardandolo negli occhi,  forse con l’intento di sdrammatizzare sull’accaduto, scoppiò a ridere. Però, vedendo che lui era rimasto serio, appena la fila si mosse, accostandolo gli offrì il braccio.

«Scusi, prima sono stata sfacciata, non volevo offenderla, ma lei era così buffo con la mano sul naso e i capelli tutti per aria. Venga, si appoggi a me, mi sembra ancora intontito dalla botta. Ce la fa a scendere?».

«Sì, credo di sì. Fa male, forse servirebbe del ghiaccio. Spero non sia rotto».

«Ma no, è solo una brutta botta, se fosse rotto colerebbe sangue come una fontana e, in più, avrebbe il naso storto».

«Senta, vorrei pregarla di un’altra gentilezza…».

«Dica, senza problema. Di che si tratta?».

«È che senza occhiali sono perduto. Mi guiderebbe nel discendere i gradini? Ho paura di mettere un piede nel vuoto e…».

«Non si preoccupi, l’aiuto io. Scendo e la tengo per mano».

«Scusi ancora, sono proprio un imperdonabile zotico, non le ho nemmeno chiesto se lei si è fatta male, se le duole la schiena».

Rapita dai modi eleganti e dall’eloquio forbito dell’uomo lei, intenerita dalla sfortuna in cui era incappato quel bel cucciolone ferito, ignorando la leggera fitta di dolore che le pizzicava la spalla, rispose: «Niente di che preoccuparsi, sto bene. Ecco… siamo arrivati all’uscita. Adesso io scendo. Appena sono giù, lei mi passa la valigia che poi io le prendo la mano per aiutarla a scendere».

Poggiati i piedi a terra lui, rivolgendosi alla giovane donna, disse: «Non so come avrei fatto senza il suo aiuto. Spero un addetto della stazione mi accompagni a trovare un taxi».

«Oddio!… pensavo avesse qualcuno, una moglie, un amico, che l'aspettava qui al binario o fuori della stazione».

«Magari… non ho nè moglie nè amici. Sono a Trento solo di passaggio, per lavoro. Domattina ho un incontro all’università con docenti e studenti del Dipartimento di Sociologia della Letteratura e nel pomeriggio dovrei ripartire per Roma».

«Allora lei adesso sarebbe andato in albergo, e così?».

«Sì, mi hanno fissato una stanza all’Hotel America e prenotato un tavolo in un ristorante nei dintorni dell’hotel. Il nome l'ho appuntato nella mia agenda».

«Ho capito…» stava dicendo la giovane donna che lui intervenne.

«Scusi se la interrompo, almeno prima di lasciarla permetta io mi presenti. Sono Valerio Ortese, vengo, come avrà intuito, da Roma che è anche la città dove abito e lavoro».

«Sì, certo… piacere, io mi chiamo Laura Calliari, vengo da Verona, ma abito e lavoro qui a Trento. Scusi signor Ortese, lungi dall’essere invadente, l’albergo dove ha prenotato è vicinissimo alla stazione. Per arrivarci non le serve il taxi. Se non ha difficoltà a camminare l’accompagno io. Mi sa che è meglio, altrimenti su questo binario lei ci fa notte aspettando arrivi qualcuno ad aiutarla».

«Signorina Calliari… giusto? Scusi, io per i nomi ho qualche difficoltà, è sicura di non scombinare i suoi programmi? Mi seccherebbe approfittare. Magari è stanca e certamente ci sarà qualcuno ad attenderla per cena».

«Non si preoccupi, lo faccio volentieri e se proprio ci tiene a saperlo, non ho nessuno in pensiero per me. No! le sto dicendo una bugia, qualcuno ci sarebbe, si chiama Ozzi, il mio gatto, però stasera è a casa di amici, coccolato e viziato dai loro bambini».

«Allora faccia la buona Samaritana sino in fondo: mi accompagna prima in albergo e poi – uh maledetto naso, se fa male! –  e poi, le dicevo, si ferma a cena con me. Non vedo altro modo per sdebitarmi con lei. Su, signorina Laura, spero non le dispiaccia se l’ho chiamata per nome, mi dica di sì, mi permetta di essere all’altezza della sua gentilezza!».

Indecisa se accettare o meno l’invito, Laura guardandolo rispose: «Mi dia qualche secondo per pensarci, intanto raggiungiamo l’uscita. Nell’atrio della stazione ci sono i telefoni, almeno una chiamata ai miei amici devo farla. Sa, con un gatto non si sa mai come vanno le cose».

«Bene, sono però certo che i suoi amici non le diranno di no. A proposito, ha fatto caso a quante scintille sono volate in aria quando il treno ha iniziato a frenare?».

«Eccome, sembrava di essere nell’officina di un fabbro!» rispose la donna.

«Peccato per tutto quello sbattimento e il mio ruzzolone. Era da tanto che non mi capitava di vedere una tale quantità di stelline» disse Valerio allusivo stringendo con la mano il braccio della donna.

Risalito il sottopassaggio, appena sbucarono nell’atrio, Laura si fermò di botto.

«Scusi, io andrei a telefonare. Mi aspetti qui, ci metto un momento» e, fatto qualche passo, voltandosi aggiunse con un gran sorriso: «Solo un attimo!...».

Sono certo che accetta… è un po’ giovane, ma che importa… e che bella, due occhi meravigliosi!” stava dicendosi il professore che, proprio a due passi da lui, un gruppo di persone, tutti con addosso la divisa da ferroviere, anche loro risaliti dal sottopassaggio, presero a conversare animatamente interrompendo il suo fantasticare sui possibili sviluppi della serata.

«No, un bel rapporto a quel fesso non glielo leva nessuno, ma come si fa?» disse uno degli uomini.

«Il collega di Bologna mi ha detto che sta attraversando un momento difficile, si sarà distratto…» aggiunse un altro.

«Distratto? Ho fatto un capitombolo che lo sa solo Dio come non mi sono rotto il collo!» ribattè il primo.

«Senti, pare il problema sia sua moglie…» disse il secondo uomo che aveva parlato.

«Che fa, gli mette le corna? Mi sembra il minimo, gran pezzo di cornuto!» imprecò il primo.

«E’ proprio il contrario, sembra che non gliela dia più, per questo è così fuori di testa» precisò il secondo.

«Oddio, poveretto, deve averle piene da scoppiare le sacchette! A giudicare da come è entrato in stazione e dalle scintille, tira aria di tempesta…» disse ironico il terzo ferroviere accompagnando le parole al gesto dell'ombrello e a una gran risata.

Al professore sfuggì il resto della conversazione avendo il terzetto ripreso a camminnare. Quel poco, però, che aveva sentito gli mise addosso un non so che di temerario. A lui la sfortunata disattenzione del macchinista gli stava invece propiziando una bella occasione. – “Scintille o non scintille tocca a me ora saper accendere il fuoco. Peccato per il naso” si disse massaggiandosi la parte ancora dolorante.

«Eccomi, professore, tutto a posto: il gatto è tranquillo, sono libera. Accetto il suo invito!» esclamò Laura ondeggiando la testa riccioluta e gli occhi luminosi, accesi dalla contentezza.

«Non sa quanto mi fa felice e, la prego, non mi chiami professore. Le sembro così vecchio da voler sottolineare le distanze? Suvvia, mi chiami Valerio e… se è d’accordo, quando saremo a cena, le chiederò di brindare. Non indovina  a cosa?» disse lui euforico.

«Non saprei… Valerio. A cosa vorrebbe brindare?» domandò lei con una punta di imbarazzo nella voce e le palpebre ballerine.

«Alle scintille, alla pioggia di stelle che mi ha permesso di conoscerla. Venga, mia salvatrice, venga…evviva le scintille!».
Vladimiro Forlese

sabato 23 agosto 2014

Tutto per un attimo

Questo testo è presente nell'antologia "Racconti scritti con i piedi", ed. ilmiolibro.it, un titolo ironico nel quale diversi autori e autrici si cimentano in brevi narrazioni aventi i piedi cooprotagonisti delle storie, alla pari dei diversi personaggi.

Tutto per un attimo



       Come ogni mattina alle sette in punto la sveglia cominciò a gracchiare sul comodino. Da sei mesi, giorno dopo giorno, nella spoglia stanza da letto situata al terzo piano del condominio ubicato alla Garbatella, in Largo Randaccio, XII municipio di Roma, la scena era sempre la stessa: lui, ancora rannicchiato in posizione fetale, che appena partiva il suono dell’aggeggio elettronico dopo essersi girato e rivoltato da una parte e dall’altra del letto, prima di scivolare fuori dalle lenzuola si stropicciava gli occhi con tutte e due le punte delle dita, quasi volesse ripulirere con quel gesto energico il sonno restante nelle orbite, la colla che impediva alle palpebre di aprirsi. A quel primo rituale ne seguiva un altro, il braccio che si allungava verso il comodino e la botta, col palmo aperto, sulla suoneria dell’orologio, giusto in tempo per stoppare il secondo insopportabile gracidio. E infine la mano che afferrava il pacchetto di Gitanes senza filtro e la scatolina di svedesi. Una scena che sembrava, nell’ossessiva ripetitività dei gesti, cronometrata e mandata a memoria in ogni sua parte, e forse lo era date le abitudini e le manie di Massimo di tenere ogni cosa, anche la più banale, rigorosamente sotto controllo.
Spenta la sigaretta, del tutto sveglio, seduto sulla sponda del letto, dopo aver acceso la abat-juor, con movimenti altrettanto misurati prendeva a vestirsi. Generalmente preferiva indossare pantaloni senza cintura, con l’elastico in vita, alternando alle pratiche magliette senza collo camice di tela. Fu così anche quella mattina.
Il suo era un abbigliamento volutamente anonimo, simile al modo di vestire di milioni di persone della sua età. E anonima era pure la sua faccia, priva di barba o di baffi, rassicurante e senza alcun segno che desse nell’occhio o che attirasse su di lui l’attenzione degli altri. Anonima, da perfetto uomo della porta accanto.
      Finalmente vestito, ma ancora senza le scarpe ai piedi, andò in cucina e poi in bagno. Ne uscì sospirando il caffè che già brontolava nella macchinetta. Quando finì di bere le lancette dell’orologio puntavano le otto, in perfetta sincronia con l’ora prefissata per il ricevimento del segnale. Difatti, appena accese il cellulare, come previsto, arrivò il bip che gli annunciava l’arrivo di un messaggio. Aprì la comunicazione e lesse: - “Tutto bene, è appena entrato in macchina”. Dopo quindici minuti il bip risuonò ancora: - “Ha lasciato l’auto e sta entrando nel palazzo”.
Soddisfatto annotò sulla Moleskine, esattamente nella riga di un prospetto composto da un numero di celle  equivalenti ai giorni del mese da lui in precedenza disegnato, la data, una faccina sorridente tipo emoticon e due minuscoli +.
Esaurita ogni altra incombenza, dopo aver indossato le scarpe e sbirciato l’orologio, si affrettò a uscire di casa diretto al tabacchi di Via Persico, la rivendita di sigarette e giornali lontana suppergiù un chilometro da dove abitava. Secondo i suoi calcoli, a passo sostenuto, tra andare e tornare, non ci avrebbe impiegato più di sedici minuti. In tempo, comunque, per accogliere Jole e Michele, i due responsabili dei nuclei impegnati nell’operazione in corso, e come lui membri della direzione strategica, attesi alle nove e trenta in punto nel suo appartamento, coi quali avrebbe definito la scaletta da presentare alla riunione con gli altri membri dell’organizzazione, prevista prima di mezzogiorno.

       Alle nove e trentatrè arrivò Michele, Jole sette minuti dopo. Seduto al tavolo di cucina Massimo guardando negli occhi l’uomo e la donna sbuffò provocatoriamente una nuvola di fumo sulle loro facce. Senza smettere di fissarli aprì la sua agenda nera, tamburrelando nervosamente le dita sul tavolo. Poi, secco, sbottò: «Compagni, ignorare la puntualità significa farsi beffe della prima regola del nostro agire politico, la sicurezza. Non ne convenite?».
    «Scusa Massimo, è colpa del mio orologio, pensavo di essere in orario e invece…» disse rispondendo con un filo di voce Michele che fu interrotto da Jole la quale, in tono meno ossequioso, ribattè scocciata: «Sì, è vero, sono arrivata tardi e mi spiace, l’autobus sembrava una lumaca, lo sai anche tu, il traffico di mattina è micidiale. Per spostarsi da una parte all’altra della città è un’impresa e di autobus, per venire qua, ne ho presi due». 
      «Basta, non voglio ascoltare altro. Sorvoliamo, di tempo ne abbiamo già sprecato troppo. Sappiate però che su questo vostro atto di indisciplina farò, come è mio dovere, cenno nella riunione della direzione strategica. Dunque…vi ho convocati per definire gli ultimi dettagli dell’operazione e valutando i rapporti che mi sono pervenuti direi superati anche gli ultimi ostacoli in ordine alla regolarità degli spostamenti del Procuratore Generale. Avete altri elementi su cui dovremmo discutere?».
«Senti… riguardo al ritardo» aveva iniziato a dire Jole che Massimo la fulminò repentino: «Mi pareva che questa faccenda fosse ormai argomento chiuso!».
«E no cazzo, tu non puoi! Non lo trovo giusto. Prima mi paragoni a una che disattende la sicurezza e poi liquidi la cosa con quel paternalistico “sorvoliamo” rinviando la questione alla direzione strategica per indisciplina. Trovo sia assurdo! Ho ammesso il mio ritardo e ti ho chiesto scusa, anche se…».
«Anche se cosa?» replicò Massimo aggrottando gli occhi.
«Che per un attimo, il tempo di una sigaretta, vuoi innestare un processo. Può capitare a chiunque un momento di involontaria defaillance».
«E tu Michele niente da dire? La tua suscettibilità è stata ferita? Dai, coraggio… parla!» lo invitò ironico Massimo.
«No, non ho niente da dire, a me sta bene così!» rispose l’uomo.
«Allora, esimi compagni, ve la dico io qualcosa. Nei tuoi tre minuti, caro compagno Michele, poteva accadere di tutto. Per esempio un’improvvisa irruzione dei corpi speciali venuti a conoscenza del nostro incontro. Se tu fossi stato puntuale avresti dalla strada notato i preparativi della loro irruzione, avvertendomi affinché io avessi il tempo di saltare dal terrazzo sul tetto della casa vicina e da lì defilarmi seguendo la via di fuga di cui vi ho parlato nell’incontro della scorsa settimana. E se questa eventualità poteva accadere nei tre minuti di Michele, nei tuoi dieci, compagna Jole, evito persino di raffigurare ipotesi. In clandestinità gli attimi sono tutto, c’è la vita e la morte, la galera e la possibilità di continuare la lotta».
Jole, in evidente imbarazzo nel silenzio calato nella stanza, reagì accavallando le gambe. Michele, invece, sembrava una statua di gesso tanto si era irrigidito. Le parole di Massimo erano più che ragionevoli, e lo sapevano. Bastava un piccolo errore, un’indecisione, la perdita di concen-trazione perché saltasse tutto.
Quando si guardarono, Jole abbozzò quello che nelle sue intenzioni doveva essere un sorriso, ma che in realtà gli altri, forse per uno strano movimento dei suoi muscoli facciali, percepirono come una sforfia di sofferenza. In tre anni di quella vita condotta consapevolmente al limite, fuori dai canoni di una normalità rifiutata per scelta, era la prima volta che veniva rimproverta da un membro dell’organizzazione. Il nucleo Zero era la sua famiglia, tutto il suo mondo. Lei, figlia di operai, terza di tre fratelli, una laurea in Scienze politiche in tasca, la vita di prima non se la ricordava nemmeno. Certe notti, in sogno, si rivedeva bambina a Milano, quando giocava rincorrendosi con il fratellino di un anno più grande, sul lungo ballatoio del secondo piano o nel cortile della casa a righiera dietro i Navigli. Certe altre, soprattutto in prossimità di azioni dove si sarebbe magari sparato, in sogno le apparivano i corridoi della facoltà affollati di studenti e colleghi del dipartimento dove aveva a lungo prestato servizio. Eppure, nonostante la durezza e la tensione, non aveva mai smesso l’idea che un giorno la clandestinità sua e degli altri potesse finire, restituiti a un mondo più giusto, senza più sfruttati, dove sarebbe stato bello vivere. In fondo al suo cuore era restata la bambina romantica di un tempo e la donna conquistata agli ideali di un nuovo umanesimo. Per questo si era sentita ferita quando Massimo l’aveva accusata di indisciplina rivoluzionaria. Lei non aveva colpa: “maledetto autobus e maledetto traffico” pensò scrutando Massimo con la coda dell’occhio. Anche se lui aveva ragione, lei mai e poi mai avrebbe fatto pesare su un altro compagno un giudizio così netto e pesante. “Gli sarebbe bastato un gesto simbolico, che so picchiettare con un dito sull’orologio e farla finita. Ma lui no… lui è il capo, l’intransigente!” pensò ingoiando una palla di saliva accumulata in bocca.

Al termine della riunione di mezzogiorno, ogni membro della direzione strategica sapeva cosa fare e quali ordini avrebbe impartito agli uomini delle colonne impegnati nell’operazione. L’appuntamento per tutti era stato fissato per il giovedì successivo. Operativamente erano quattro i nuclei impegnati più direttamente, mentre altri due erano stati designati d’appoggio, come staffette lungo l’itinerario che avrebbe percorso l’auto principale e il corteo della scorta del Procuratore Manni. Al momento d’accommiatarsi, Jole stringendo la mano di Massimo disse con voce ferma due parole su cui aveva rimuginato per l’intera mattinata: «Manteniamoci umani!».

Restato solo, Massimo provvide a eliminare dalla stanza qualsiasi traccia dei cinque partecipanti all’incontro. Bruciò i fogli d’appunti, ripulì con cura i posacenere e armato di scopa spazzò accuratamente il pavimento. Dopo aver richiuso i sacchetti dell’immondizia, passò il mocio, allungando il lavaggio anche sul pavimento del minuscolo corridoio d’ingresso. Poi, aprì la porta e scese lentamente le scale. Chiunque l’avesse notato, avrebbe semplicemente ricordato un uomo diretto a depositare i sacchetti che stringeva nella mano nei bidoni della spazzatura posti all’esterno del condominio.

All’imbrunire di mercoledì chiuso il piccolo trolley dove aveva riposto i suoi effetti personali, lasciò la casa. A quell’ora nessuno l’avrebbe notato scendere le scale. Prima di uscire dal portone, infilò nella cassetta per le lettere le chiavi dell’appartamento. Percorso mezzo chilometro si fermò alla fermata del sessantasei, il bus  diretto in centro città. Scese alla fermata in zona Piramide e si affrettò a raggiungere, come un qualsiasi turista, la Pensione Flavia, dove avrebbe trascorso la notte.
Seduto in poltrona consumò i due panini che si era preparato nell’altra casa scorrendo le immagini del telegiornale, seguendo sia l’edizione nazionale sia quella regionale. Stufo si distese sul letto e iniziò la lettura di una rivista. Si soffermò su un articolo intervista di un esponente legato alla cooperazione internazionale, incuriosito dal titolo:  - “Per quanto difficile, manteniamoci umani”. Curiosità accresciuta perché le parole riportate in evidenza facevano il paio con quelle pronunciate da Jole due giorni prima, al termine della direzione strategica. Ne sorrise, ma non potè fare a meno di ripensare alla discussione con la donna e alle decisioni assunte, su sua proposta, dall’organismo politico nei confronti dei due compagni, censurati per negligenza. – “Mah, forse sono stato troppo duro, ma le regole sono regole, e vanno rispettate”. Finito l’articolo si addormentò profondamente.

Alle sette in punto Massimo era già in strada. Da lì a poco sopraggiunse in macchina Valerio. In cinque minuti raggiunsero gli altri compagni già appostati vicino la casa del Procuratore. Appena l’auto con a bordo Massimo parcheggiò, uno degli occupanti delle altre macchine ne discese e si avvicinò per conferire. «Qui tutto a posto, non abbiamo notato alcun movimento sospetto».
«Bene, ormai ci siamo, mancano sette minuti. Mi raccomando, si parte al mio segnale. Riferiscilo agli altri, al mio segnale e che nessuno prenda iniziative personali. Va e buona fortuna a tutti!» disse Massimo con un tono da cui non traspariva alcuna alterazione emotiva.
In orario perfetto, allo scadere del settimo minuto, da dietro la curva comparve la prima auto di scorta seguita a ruota dalla macchina che avrebbe ospitato il Procuratore e dall’altra che chiudeva il corteo. In contemporanea si senti il rumore di una serratura che scattava e il breve cigolio della porta d’ingresso della villetta che si spalancava. Ne uscì una donna con un bambino tenuto per mano e subito dopo apparve anche il Procuratore Manni. I tre percorsero affiancati i pochi metri che separavano il giardino dalla strada, sino al cancello della villetta. Già in posizione fuori dalle auto gli uomini della scorta aspettavano solo che il Procuratore varcasse il cancelletto. Analogamente, pronti a farsi avanti, i componenti del nucleo Zero appostati sul marciapiedi di fronte alla casa. Loro, secondo il piano messo a punto, sarebbero intervenuti appena il capo scorta avesse fatto entrare l’obiettivo in auto. Era questione di secondi: né un attimo prima, né un attimo dopo. Sul sincronismo, con maniacale pignoleria, Massimo ci aveva lavorato a lungo.

Aperto il cancelletto, il Procuratore, per raggiungere l’auto della scorta, doveva discendere solo una doppia rampa di quattro gradini, alla base dei quali l’attendeva, pistola in pugno, il maresciallo De Blasio, capo di quel drappello di carabinieri comandati a proteggerter l’importante magistrato. Fu allora, quando aveva già calpestato l’intera prima rampa, che il piccolo Fabio prese a strillare: «Papà… papà non mi hai dato il bacio, papà voglio il bacino!».
Nonostante i tentativi di rabbonire il bambino, la signora Marta richiamò il marito: «Carlo, ti prego… accontentalo» e rivolta al capo scorta fermo in attesa sul marciapiede: «Maresciallo ci scusi, solo il tempo di un bacino».
Tornato sui suoi passi il Procuratore si fermò fuori dal cancelletto. Marta sollevò il piccolo Fabio affinchè il papà potesse baciarlo. Per riuscirci il Procuratore, sorreggendosi alle sbarre del cancelletto, dovette sollevarsi sulla punta dei piedi per assestare sulle gote del figlio il bacio richiestogli.
Sull’altro lato della strada, protetto dietro un tabellone pubblicitario, Massimo osservando la scena del Procuratore issatosi sulla punta dei  piedi per baciarte il figlio, fu rapito da un ricordo che lo riportò indietro a quando lui era bambino. Una scena alquanto simile a quella cui aveva assistito, con suo padre che per baciarlo si issò anch’egli sulla punta dei piedi, suscitando una gran risata di mamma Luigina e della sorella Erminia.
Perso in quel ricordo, il capo del nucleo Zero non s’accorse del subitaneo ritorno del magistrato verso l’auto di scorta. E dato che l’ordine di intervento doveva darlo lui, nessuno del gruppo si mosse quando, chiuso lo sportello, l’auto dei carabinieri ripartì dileguandosi a velocità sostenuta.
Conscio di quanto l’aspettava, si lasciò scappare tra i denti alcune parole: «Tutto per un attimo, un maledetto attimo!...».
Vladimiro Forlese