mercoledì 17 settembre 2014
La parola PADRONE/2
Ciò che non mi piace della parola "padrone" è l'idea del possedere. Già accennavo nella prima parte come nella storia questo concetto lo si trovi formalizzato nelle leggi di molti stati che ne hanno in tal modo sancito uno status di legalità, tanto da diventare tra le colonne portanti di tutte le cosiddette democrazie liberali. Nella storia, però, troviamo anche intere pagine di quali e quanti orrori l'esercizio al diritto di proprità, l'esercizio del padrone, sia contrassegnato. E' su questo che voglio soffermarmi.
In un racconto che ho scritto anni addietro, intitolato "Terra Australis", narravo dell'incontro tra gli aborigeni di quell'isola-continente e il capitano James Cook, al servizio di sua Maestà, la Regina d’Inghilterra. Eccolo...
* *
Dico subito che se Japara, la Luna, era un uomo, quel popolo il Sole se lo immaginava come una donna che si svegliava ogni giorno nel suo accampamento a est. Wuriupranili, era questo il suo nome, di buon ora accendeva un fuoco, e preparava la torcia di corteccia che avrebbe portato attraverso il cielo.
Il Sole - dicevano -, prima di esporsi ama decorarsi con ocra rossa, la quale, essendo una polvere molto fine, si disperde anche sulle nuvole intorno, colorandole di rosso (l’Alba). Una volta raggiunto l’ovest, le piace rinnovarsi il trucco, colorando ancora di giallo e rosso le nuvole nel cielo (il Tramonto). Poi Wuriupranili, la Donna-Sole, comincia un lungo viaggio sotterraneo per raggiungere nuovamente il suo campo nell’est. Durante questo viaggio sotterraneo il calore della torcia accarezza le radici e induce le piante a crescere…
Fu dopo l’alba che il capitano James Cook, ignaro della credenza indigena, e forse degli indigeni stessi, arrivò nell’isola-continente. Gettò l’ancora vicino la penisola di Kurnell, presso la Botany Bay. Era il 23 luglio, anno del Signore 1770.
Due secoli prima, marinai portoghesi avvistando la stessa costa avevano gridato "terra!.. terra!", ma se ne erano tenuti lontani. Passò ancora un secolo quando navigli olandesi vi fecero sosta per rifornirsi d’acqua, frutta e selvaggina. E dovettero passarne altri cento di anni perchè quel marinaio di nome James, innamorato del mare, talentuoso cartografo, per conto della Royal Society, vi approdasse sconvolgendo per sempre l’ordine delle cose, l’armonioso universo del Popolo dei Sogni...
Si sa, chi va a lungo per mare, una volta in porto, dilapida il soldo in rum e sciala oceani di parole. Rum e chiacchiere tirano su dal pozzo i fantasmi, lavano dal petto la paura delle tempeste e dell’ignoto. Rum e fanfaronate riportano tutto in mare, servono al marinaio per sopravvivere.
Nei due secoli prima dello sbarco di Cook, di quella terra sconosciuta già se ne parlava, e tuttavia non c’erano ancora parole divenute parole, capaci di superare quel confine invisibile, ma più resistente del granito, che divide il credibile dall’incredibile, il delirirante racconto causato dalla febbri malariche e dai miraggi.
Persino nell’antichità remota se ne parlava di "Terra Australis", del continente immaginario cui Aristotele attribuì il nome, accuratamente disegnato - nel I° secolo - dal cartografo greco Tolomeo, convinto che l’Oceano Indiano fosse delimitato a meridione da un vasto continente. E se ne continuò a parlare nel Rinascimento e se ne parlò dopo, per anni e anni. Ma nessuno ebbe mai modo di arrivarci.
Anche Cook, nonostante avesse navigato per il Pacifico, giungendo a Tahiti, Nuova Zelanda e in migliaia di isole, era scettico circa l’esistenza della nuova terra e dei racconti che circolavano di taverna in taverna. Ma quando vi arrivò a bordo della sua HM Bark Endeavou e gettò l’ancora nella baia, abbracciò il fido Tupaia, l’esperto navigatore tahitiano compagno di miglia e miglia di mare e avventure.
Era passata l’alba. Nel cielo la Donna-Sole con nelle mani la torcia di cortecce correva a ovest. Cook, invece, scendendo dalla barca, fiero piantò una bandiera sulla spiaggia e, ringraziando il suo Dio, solenne dichiarò quella terra proprietà britannica. Era fatto. L’ignoto divenne noto, l’incantesimo fu rotto, bottiglie di rum e chiacchiere e fantasmi e paure delle tempeste se li riprese il mare. Otto anni dopo arrivò il capitano Arthur Phillip con la Prima Flotta. Sbarcarono mille uomini: deportati, soldati e ufficiali. Di quella terra misteriosa, immaginata e tanto cercata, ne fecero una colonia penale. Un posto per reietti e guardiani di reietti.
Quando arrivarono, nascosti ai loro occhi, sparpagliati sull’isola, c’erano 600 tribù, con oltre un milione di aborigeni che là vivevano da oltre 40.000 anni. Da sempre…
Da sempre il Popolo dei Sogni viveva là, sulla grande isola-continente. Da 1.250 generazioni e forse ancora da prima.
Originari dell’indocina, si spinsero in quelle lande a meridione traversando con imbarcazioni rudimentali i mari della Sonda o raggiungendo, sempre via mare, la Nuova Guinea e percorrendo poi a piedi lo Stretto di Torres, territori che poi divennero mari e oceani, quando il tempo era "tempo senza tempo", era "Alcheringa", e gli antenati dormienti se ne stavano sotto la crosta della terra, in attesa fosse Tjukurapa, il "tempo del sogno"; quando risvegliatisi emersero al cuore di un popolo e vennero per modellare il paesaggio, dando origine a tutto, agli esseri viventi, come alle catene montuose e ai torrenti.
Eppure nessuno li vide. Addirittura i sudditi di Sua Maestà, attribuendosi il dominio del sud della grande isola-continente addussero - in punta di diritto - fosse quella "terra nullius", territorio di nessuno, disabitato, privo di legittimi possessori. Terra su cui poter mettere le mani, di cui era possibile far man bassa, dove, istruito dalle leggi dello scambio (e il dare e l’avere significava solo prendere), s’eri furbo accumulavi ricchezza, perchè il Popolo dei Sogni non conosceva recinti, né atti notarili. Per cinquantamila anni mai furono a loro necessari muri e barriere e cancelli e dogane e giudici e soprattutto parole, le parole del possesso, quelle che distinguono "il mio dal tuo"…
Cos’è mio? Cos’è tuo? Cos’è, infine, nostro?
Il Popolo dei Sogni conosceva solo alfabeti senza possesso, sapeva ogni cosa creata essere il sogno di un desiderio. E la terra qualcosa che li collegava al tutto, essi stessi frutto di un sogno delle potenze ancestrali, incarnati perchè quel sogno vivesse e a quel sogno potessero un giorno tornare.
Loro non possedevano. Non potevano, essendo un pensiero estraneo al loro pensiero. Per questo non avevano le parole del possesso. E poi, come si faceva a possedere la terra, un collegamento spirituale?
…"Noi non possediamo la terra, la terra ci possiede; la terra è nostra madre, e nostra madre è la terra". "La terra è il punto di partenza, dove tutto è cominciato e dove andrò". "La terra è il nostro alimento, la nostra cultura, il nostro spirito e identità".
Poi, passate cinque lune dallo sbarco, si videro, si incontrarono.
Nel cielo Wuriupranili, la Donna-Sole, prossima a rifarsi il trucco, ormai stringeva nella mano solo un tizzone della torcia di cortecce. Calmo e pieno di spume biancoramate il mare nasceva e moriva con lenti sospiri sulla battigia, mentre le scialuppe, ormeggiate vicinissime alla riva, ondeggiavano pigre tra gli scricchiolii del fasciame e un vestito di lunghe ombre sfilacciate. Più in là, oltre la barriera corallina, in acque profonde, la sagoma dell’Endeavou dominava la baia.
Uomini nudi dal corpo dipinto uscirono fuori dalla boscaglia. Le sentinelle di Cook se li videro comparire all’improvviso davanti. Superata la sorpresa, presero a urlare. Un coro di "chi va là! " correva da un punto all’altro dell’improvvisato campo, incespicando ora sulle facce stupite dei compagni, ora cozzando su altre voci che, con più velocità e concitazione, chiamavano all’allerta la comunità sparpagliata sulla spiaggia.
Nel generale parapiglia qualcuno rovesciò un pentolone che bolliva sul fuoco, altri calpestarono compagni addormentati, altri ancora, imbracciate le armi, s’adunarono là dove caporali e sergenti strepitavano all’ossesso. Richiamato dalle voci, lo stesso Capitano si precipitò fuori dalla tenda e a lunghe falcate si diresse nella direzione dove tutti i suoi sottoposti correvano.
Dinanzi a lui il primo ufficiale gridava: "Largo, fate largo!". A guardargli le spalle lo seguiva Tupaia il navigatore tahitiano.
Ben presto il terzetto arrivò dove il mucchio di armati e marinai era ormai un vero e proprio muro schierato a difesa dell’accampamento. A quel punto fu lo stesso Cook a ordinare: "Uomini largo, fate largo!". Improvvisamente scese il silenzio, la muraglia si divise in due, lasciandogli il passo. Ormai erano faccia a faccia.
L’uno di fronte all’altro, quel 29 luglio non c’erano solo uomini, ma mondi. La progenie della più antica civiltà della terra s’incrociava con i discendenti del mondo venuto dall’altra parte del mondo, arrivati là con un preciso scopo, ingrandire l’impero, decretando la potenza della Regina, la superiorità su esseri abituati a vivere senza una casa, senza coltivare, senza allevare animali, senza scrivere le proprie leggi. Selvaggi privi di una cultura.
Quel giorno, due corde sino ad allora distinte, si annodarono, divennero una, e quell’una divenne cappio e poi catena, strumento di tortura e di morte. Questo è scritto nel libro dei vinti.
Tupaia ora precedeva tutti. Sapeva toccava a lui parlare. Urlando a pieni polmoni disse il suo nome e ruotando il busto indicò con le braccia Cook.
A distanza di venti metri i dieci uomini dipinti lo guardavano curiosi e, lanciandosi occhiate l'un l'altro, guardavano Cook e l’intero schieramento. Nella sua lingua Tupaia, gesticolando, ripeté le parole di prima, indicando di nuovo il Capitano. Gli uomini dipinti presero a parlare tra loro. Dopo un po’ uno si fece avanti. A piccoli passi s’avventurò in quella terra di nessuno createsi tra i due schieramenti.
Era snello, piuttosto giovane. Portava una fascia di stoffa rossa legata attorno alla testa su cui svettava un piumaggio verde e blu. Aveva la faccia e gli occhi incorniciati di bianco e ornamenti dipinti su collo, petto e braccia e poi sulle gambe. Due linee sinuose finemente inframmezzata da piccoli punti e altre figure geometriche, come il disegno della pelle del serpente. Alla caviglia un nastro, anche quello rosso, come la fascia che gli cingeva la fronte. Tra le mani una lunga canna di bambù dalla punta acuminata e in vita una cintura di capelli intrecciata che reggeva il boomerang a altri attrezzi utili nella caccia.
Fatto qualche passo, si fermò volgendo la testa ai suoi. Poi, più deciso, riprese a camminare. Giunto a ridosso di Tupaia, s’arrestò di colpo. Fu allora che Cook si fece avanti ordinando al navigatore di parlare, cosa che il tahitiano fece. Ma visto che l’uomo dipinto continuava a tacere, il capitano ruppe gli indugi e col tono di chi è aduso al comando, disse: "Sono il capitano James Cook, al servizio di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra"…
L’altro, dapprima immobile, prese a fissarlo intensamente negli occhi e poi, attirato dal codino di capelli che gli scendeva sulla nuca, mosse lateralmente un passo verso quell’uomo che lo sovrastava abbondantemente in altezza. Al che il primo ufficiale, temendo un assalto, sguainò la spada pronto a lanciarsi e anche i soldati, armato il cane del fucile lo puntarono, pronti a far fuoco. Tempestivamente Cook alzò un braccio, ordinando a tutti: "Fermi!".
Fu allora che l’uomo dipinto si avvicinò e allungando una mano gli toccò il viso, sfiorando con le dita quella pelle chiara mai vista prima d’allora e i capelli, sopra la fronte e dietro le orecchie, sino ad afferrare il codino. Ma ritirò subito la mano, perchè al contatto avvertì netta l’assenza di vita in quella strana compatta capigliatura liscia e bianca. Poi mosse un passo indietro e senza pronunciare parola di scatto voltò la schiena all’uomo di Sua Maestà la Regina, dirigendosi veloce verso i suoi.
Appena li raggiunse, senza fare il benché minimo rumore, sparì assieme a loro, inghiottito dalla boscaglia. E arrivati che furono alle capanne, seduti attorno al fuoco, dove li attendevano gli anziani del piccolo clan, presero a parlare a turno, intervallando il raconto di ciascuno alle note del didgeridoo, la canna sonora ricavata da un sottile tronco di eucalipto, compagna del canto del creare.
Quando fu il momento di Mamboo, di colui che aveva sfiorato con le dita l’uomo bianco, un oceano di stelle aveva sostituito nel cielo la torcia della Donna-Sole. Guardando prima il fuoco e poi uno ad uno i suoi compagni, Mamboo disse: ”Questa mano ha toccato la morte”.
Quella notte, mentre Japara, l’Uomo-Luna, mostrava al mondo uno spicchio della sua faccia, sulla piccola tribù totemica il sogno degli antenati sognò il buio, e il buio il nero, e il nero la nerezza che del nero è sogno da cui non si torna. Sogno senza desiderio...
(continua).
La parola PADRONE/1
Sono giorni che
m’interrogo non tanto sul significato della parola "padrone", facilmente
risolvibile consultando qualsiasi dizionario, quanto sul senso, sulla
valenza culturale concreta che il termine ha nelle nostre vite.
Più nello specifico la mia attenzione/curiosità è rivolta a comprendere i nessi più riposti tra il termine padrone e il concetto di possesso che permea, consapevolmente o inconsapevolmente, il nostro modo di essere, le nostre relazioni, il nostro esistere in quanto individui sociali.
Senza tirarla per le lunghe - non intendo ammorbarvi con un saggio -, lo sguardo alla storia chiarisce molto, o meglio potrebbe aiutare nell'assolvere la mia riflessione se... (c'è sempre un "se" di troppo...) l'insegnamento che deriva fosse il segno di una crescita, di un'etica superiore acquisita, in grado da esimerci nel compiere gli stessi errori e orrori.
Basta gettare un occhio alla cronaca dei conflitti in atto nelle varie aree del pianeta per accorgersi di quanto molto ruoti attorno a un'idea padronale del mondo e, al contempo, quanto "il mondo schiavitù" sia ancora piantato nel profondo di miliardi di esseri umani. Si muore perché qualcuno, innalzando vessilli (non importa quali), deve prendere, imporre, possedere qualcosa, il più delle volte la vita: dei vinti e delle masse illuse di aver vinto, cui della vittoria vanno a malapena le briciole.
Non mi piace la parola "padrone" e non mi piacciono tutti i tentativi di renderla culturalmente soft, meno reale, lavata con dei sinonimi al solo scopo di farla apparire - con acrobazie mediatiche, trasfiguratrici della realtà - linguisticamente l'esito di conflitti sociali risolti, pacificati. L'ultimo trentennio è stato maestro in questa impresa. Se, ad esempio, parlando delle relazioni sui luoghi di lavoro dicevi padrone, subito ti vomitavano addosso l'epiteto di essere "retrò", di non comprendere la modernità, col risultato che assimilare operai e padroni (ops! imprenditori) ha nascosto, in termini di diritti, salari, sicurezza, contraddizioni che oggi ci si ritorcono addosso, e l'imbarbarimento, la violenza, i diktat sullo stato delle relazioni sui luoghi di lavoro stanno a testimoniarlo.
(continua)
Più nello specifico la mia attenzione/curiosità è rivolta a comprendere i nessi più riposti tra il termine padrone e il concetto di possesso che permea, consapevolmente o inconsapevolmente, il nostro modo di essere, le nostre relazioni, il nostro esistere in quanto individui sociali.
Senza tirarla per le lunghe - non intendo ammorbarvi con un saggio -, lo sguardo alla storia chiarisce molto, o meglio potrebbe aiutare nell'assolvere la mia riflessione se... (c'è sempre un "se" di troppo...) l'insegnamento che deriva fosse il segno di una crescita, di un'etica superiore acquisita, in grado da esimerci nel compiere gli stessi errori e orrori.
Basta gettare un occhio alla cronaca dei conflitti in atto nelle varie aree del pianeta per accorgersi di quanto molto ruoti attorno a un'idea padronale del mondo e, al contempo, quanto "il mondo schiavitù" sia ancora piantato nel profondo di miliardi di esseri umani. Si muore perché qualcuno, innalzando vessilli (non importa quali), deve prendere, imporre, possedere qualcosa, il più delle volte la vita: dei vinti e delle masse illuse di aver vinto, cui della vittoria vanno a malapena le briciole.
Non mi piace la parola "padrone" e non mi piacciono tutti i tentativi di renderla culturalmente soft, meno reale, lavata con dei sinonimi al solo scopo di farla apparire - con acrobazie mediatiche, trasfiguratrici della realtà - linguisticamente l'esito di conflitti sociali risolti, pacificati. L'ultimo trentennio è stato maestro in questa impresa. Se, ad esempio, parlando delle relazioni sui luoghi di lavoro dicevi padrone, subito ti vomitavano addosso l'epiteto di essere "retrò", di non comprendere la modernità, col risultato che assimilare operai e padroni (ops! imprenditori) ha nascosto, in termini di diritti, salari, sicurezza, contraddizioni che oggi ci si ritorcono addosso, e l'imbarbarimento, la violenza, i diktat sullo stato delle relazioni sui luoghi di lavoro stanno a testimoniarlo.
(continua)
venerdì 5 settembre 2014
La tela del ragno
Vi ripropongo la lettura del mio ultimo racconto breve intitolato "La tela del ragno".
Mi hanno trovato che ero già morto. Per l’esattezza tre ore dopo l’ultimo flebile battito del mio cuore. Stavo riverso in un fosso, a pochi metri da un gigantesco e bitorzoluto ulivo, pancia all’aria e con sotto la spalla una grossa pietra aguzza sulla quale cadendo avevo sbattuto e che mi provocò, là per là, più dolore della lunga lama infizata nella mia carne.
Mi hanno trovato che ero già morto. Per l’esattezza tre ore dopo l’ultimo flebile battito del mio cuore. Stavo riverso in un fosso, a pochi metri da un gigantesco e bitorzoluto ulivo, pancia all’aria e con sotto la spalla una grossa pietra aguzza sulla quale cadendo avevo sbattuto e che mi provocò, là per là, più dolore della lunga lama infizata nella mia carne.
Era stato
spietatamente abile il mio sconosciuto assassino: prima un colpo secco,
sferrato con forza dall’alto verso il basso, giù sino al manico del coltello, e
poi, senza estrarre, ma con meno lama, in orizzontale nella polpa, da destra verso
sinistra, per l’intera superfice della pancia. Un taglio netto, preciso, senza
sbavature, degno di un macellaio con anni di mestiere sul groppone.
Ricordo,
mentre affondava in me la sua furia, che continuava a fissarmi tenendomi con
una mano così vicino a lui da respirarne l’alito, pesante d’aglio e di chissà
cos’altro. Una fogna a cielo aperto, orribile!
Provate a
immedesimarvi in me: colpito a morte e, come se non bastasse, negli ultimi tragici
secondi della mia vita oltre al fetore della sua bocca ho dovuto sopportare anche
quei suoi occhi sgranati, neri, macchiettati di sottili venuzze rosse e blu,
fissi nei miei.
Odio,
chili di odio irrefrenabile, feroce. Non c’era null’altro in quegli occhi,
nulla che lasciasse trapelare l’ombra di un dubbio, titubanza, sconcerto verso
ciò che le sue mani stavano compiendo. Occhi e mani, occhi e coltello, un
tutt’uno granitico, inespugnabile.
Mi ha
ucciso con gli occhi, il coltello ha solo perfezionato l’atto.
Nonostante
mi stesse ammazzando, ho provato molta pena per quell’uomo chiuso nella sua cieca determinazione.
Sì, pena,
perché – pur guardandomi – ha tenuto fuori dal suo sguardo il mio sguardo. Forse,
se mi avesse guardato, se non avesse smarrito la capacità di vedere, non mi
avrebbe infilzato. L’odio è questo velo, questa benda che oscura ogni
compassione, che mette distanza anche quando si è così vicini da respirare la
stessa aria.
Qualcosa,
però, non è andato come lui aveva progettato. Io non sono morto subito. Nel
fosso ci sono rimasto due giorni. Lui ha colpito senza nemmeno accertarsi se il
lavoro compiuto fosse andato a buon fine. Era così sicuro di sé, che ha
ripulito il coltello su un lembo della mia camicia e se n’è andato.
Disteso in
terra, dolorante e insanguinato, l’ho seguito mentre si allontanava. Forse
sbaglio a inscrivere una tale sciatteria nel libro della sua arroganza. Mi
sarei potuto salvare e lui sarebbe stato beffato, magari catturato e rinchiuso
a marcire per sempre nel fondo di una cella.
Invece,
passate alcune ore dall’agguato, spingendo con le mani sulle mie interiora che
strabordavano a ogni sussulto dalla ferita, riflettendoci ho compreso il suo
comportamento. Lui, il mio assassino, non ha verificato perché in quell’arido
pezzo di campagna discosto dal cammino dei vivi, nessuno avrebbe potuto
prestarmi aiuto. Sarei, questo deve aver pensato, comunque morto. Ecco perché
non si è degnato di verificare. Incamminandosi, nel suo passo, aggiunta alla
soddisfazione del riuscito ferimento mortale, immagino ci fosse anche il
perfido piacere della mia probabile lenta agonia.
Sono
sopravvissuto due giorni in quel giaciglio di erbacce e sassi. Ore lente,
dilatate, interminabili. Dapprima, a farla da padrone, un dolore acuto,
paralizzante. Mi era impossibile il benché minimo movimento. Poi, ho iniziato
ad avvertire all’interno dell’addome un
calore come di fuoco vivo acceso tra l’intestino, la milza, lo stomaco, il
fegato. Anche il sangue, che senza pause continuava a fuoriuscire dalla ferita,
era bollente. Bruciavo e, allo stesso tempo, sentivo freddo, brividi che mi
percorrevano tutto, facendomi battere i denti. Ironico pensai al gran banchetto
che stavano allestendo intere colonie di microbi affamati nel mio corpo. Il
decorso dell’infezione era cominciato. Appesantito dalla febbre, faticavo a
tenere gli occhi aperti. Mi sentivo a ogni minuto che passava più stanco e
debole. Chissà quanti litri di sangue avevo già perso, chissà quanti me ne
restavano ancora…
Non so
quante ore fossero passate dall’agguato, so solo che quando riaprii gli occhi,
la tenue ombra dell’ulivo mi sfiorava le caviglie. A fatica, muovendo la testa,
potei vedere un esercito di grosse formiche nere incamminato in direzione di un
cespuglio, tutte provenienti dal mio petto. Sentivo sul collo le loro zampette
in movimento. Qualcuna si era spinta oltre il mento, gironzolando attorno alle
labbra. Mi stavano ispezionando, forse attirate dal sangue. Tentai di alzare un
braccio per scacciarle con la mano. Inutile, non avevo forze per oppormi. Fu
allora che notai due grosse lucertole sopra un sasso a pochissima distanza
dalla testa. Se ne stavano immobili, come se fossero in attesa. Una era più
verde dell’altra e respiravano ritmicamente, con qualche frazione di secondo di
differenza tra loro. All’improvviso, mentre me stavo perso a fissare quegli
occhietti rotondi, non vidi che il buio. Un’oscurità ri-schiarata da una luce
di fondo. Sentii sul viso qualcosa di umido, prima su una gota, poi
sull’orecchio e, infine, sul collo. Sembrava cartavetro, di quella a grana
sottile, su e giù lungo il viso. Quando riapparve la luce compresi: era un
cane. Potei distinguerne il mantello bianco, la gran testa e gli occhi marrone
chiaro. Un cane da gregge. Mi rianimai! Con le residue forze, abbozzai un
pensiero: - “Se c’è un cane da gregge, da
qualche parte deve esserci anche un pastore”. Forse ero salvo…
Ora, mi
dissi, devo urlare, chiamare aiuto. Il cane si era accucciato accanto a me,
sbavava dal caldo e mi guardava con la lingua penzoloni. Presi a respirare
profondo e, quando mi sentii pronto, urlai più forte che potei: «Aiuto, sono
qui… aiuto!».
In realtà,
ciò che pensavo essere un urlo, era appena un fioco lamento. Inudibile da
chiunque, neanche dal bestione che se ne stava accucciato poco distante da me,
come se io fossi una pecora del suo gregge azzop-pata cui fare la guardia.
Presi a
piangere. Grosse lacrime scendevano adiacenti al naso. Alcune mi bagnarono le
labbra: erano salate e piene dello sconforto che mi pervadeva. Chiusi gli
occhi. Il delirio, almeno in questo, mi era di aiuto.
Quando li
riaprii c’era meno luce, dovevo aver dormito a lungo. Il cane era scomparso,
andato via e assieme a lui la speranza che qualcuno si accorgesse di me. Ormai
non avevo più scampo, solo un miracolo poteva ancora trarmi in salvo.
Mi
riaddormentai di nuovo o, forse, ebbi solo la sensazione di dormire poiché non distinguevo
più se la realtà fosse ciò che percepivo da sveglio o quella che mi appariva in
sogno. So solo che sul mio petto vedevo ballare due piccoli draghi verdi e tutt’attorno
era un roteare di stranissimi occhi rigonfi e neri sotto cui piccole chele
pelose si muovevano velocissime, accompagnate da un assordante ronzio.
Deliravo
senza più forze. Anche il respiro mi si era assottigliato. Alternavo lunghi
momenti d’incoscienza a pochi attimi di veglia. Non riuscivo più nemmeno a smuovere
la testa o le dita delle mani. Mi era passata persino la sensazione di freddo
che avevo patito per ore. Né brividi né dolore, niente di niente, solo qualche
sprazzo di pensiero a ricordarmi che ero ancora vivo.
Trascorsi
l’intera notte e buona parte dell’alba in quello stato, finché non accadde…
Di preciso
non so quando sono morto, se fosse già mattino inoltrato o dopo mezzogiorno,
durante la controra. Mi accorsi solo che all’improvviso non respiravo più.
Seduto
accanto al mio cadavere, guardai a lungo il corpo che era stato mio. Non potevo
crederci, vedermi là, in una pozza di sangue, bianco peggio di un cencio,
immobile, mangiato dalle mosche e dalle formiche. Era stata, la mia, una lunga
agonia.
Amaro,
prima di scomparire, tentai più volte di toccarmi: avevo una gran voglia di
lasciare sul mio viso almeno una carezza. Non ci riuscii, ero divenuto incorporeo,
come l’aria. Salutandomi, pensai con nostalgia agli anni trascorsi, all’unica
donna amata e stupidamente tradita, al mio lavoro, ai pochi amici, compagni
fedeli di bevute e follie marinaresche. E pensai che nel giorno dei miei
quarant’anni, non avrei assolto al rito di mangiare i consueti cinque fico
d’India riservati per festeggiare il compleanno.
Di me
posso dirvi che non sono stato un santo, invischiato com’ero in una rete di
contraddizioni ricorrenti, spesso irrisolvibili, tant’è che da qualche anno ho
anch’io ho imparato a fare spallucce, come la maggior parte delle persone. La
mia peggior qualità è stata l’incostanza, talvolta abbinata a una buona dose di
superficialità. Insomma ci ho provato: a vivere, amare, a ridere, ma è andata
così, finita nel modo meno auspicabile, senza nemmeno capire il motivo di
questa morte inaspettata, violenta.
Appena mi
rialzai udii come un fluff, una
corrente d’aria che mi portava via, non so dirvi se verso il cielo o giù, sotto
la superfice della terra. Poi, più nulla: solo buio e un raccapricciante
silenzio.
Un ultimo
particolare: mentre mi eclissavo, ho indirizzato il mio pensiero a chi indagherà
sulla mia morte. Da dove starò, siatene certi, nessuno mi toglierà la curiosità
di scoprire il perché hanno posto fine alla mia esistenza sotto un albero di
ulivo, l’albero che è simbolo di pace e fratellanza.
*
Il
patologo della scientifica, con voce svogliata, espresse al maresciallo Mariani
senza nemmeno guardarlo in faccia il responso: «Dissanguato, è morto
dissanguato! Suppergiù tra le undici e le quattordici di oggi» e asciugandosi
un rivolo di sudore, risalendo con cautela il fosso, aggiunse: «La coltellata
l’ha tagghijàte in dùije ‘a pànze. Questo è quanto. Per il momento, caro
Mariani, si deve accontentare, sarò…».
«Aspetti,
non s’incomodi, lo dico io dottore, le risparmio il fiato: “Sarò più preciso
dopo l’autopsia”. Giusto?» disse il milite cantelinando la formula di rito.
«Maresciallo, grazie a queste sue intuizioni la faranno certamente comandante
generale dell’Arma. Tempo al tempo, vedrà una bella greca e tante stellette non
gliele leva nessuno» ribatté ridacchiando mentre, oltrepassato il nastro che
circoscriveva l’area delimitata dalla scientifica, con tutte e due le mani si
passava il fazzoletto sulla faccia matida di sudore.
Per chi
stava attorno, ero un vero spasso assistere a quei duetti. Una scena che si ripeteva
ogni qualvolta dottore e maresciallo s’incontravano. Se ne dicevano di tutti i colori,
senza minimamente offendersi data la grande amicizia e stima che li legava.
«Caro
dottor Minervini, lo so, fa caldo, le chiedo solo, sèmpe si cià facìte a rispondere
tra nu respìre e n’àte, un’ultima cosa: secondo lei, a giudicare dal taglio, è
opera di un professionista?».
Cambiando
espressione del viso, serio il patologo rispose: «Mariani, una coltellata di
questo genere, profonda e senza sbavature, richiede oltre che precisione, una
gran forza. Le dico di più: quando esaminerò l’addome, sono certo che non
troverò alcun organo lesionato, al massimo dei graffi all’intestino. Credo di
averle risposto esaurientemente. Tragga lei le conclusioni. Stàtte bùne Maresciallo,
arrivederci a a màije chiù!» disse ironico sventagliando in segno di saluto la
mano.
«Non ci
conti Dottore! Passerò domani a ritirare il rapporto nel suo ufficio. Buona
giornata…» urlò il sottoufficiale.
Fatto
qualche passo, Mariani chiamò l’appuntato Tancredi che sostava vicino al fosso
dove giaceva il cadavere dell’uomo.
«Maresciallo, comandi!».
«Tancredi,
comodo, la prego, con questo caldo non ci si metta pure lei. Mi dica, quelli
della scientifica hanno trovato qualche elemento utile a farci identificare il
morto?».
«No,
Maresciallo, nessun documento, solo un mazzo di chiavi in una tasca del
pantalone e poche monete. Addosso non aveva altro».
«Bene,
anzi male, malissimo! Speriamo le impronte ci aiutino in qualche modo».
«Non
credo, Maresciallo, non ha l’aspetto di uno schedato» osservò il brigadiere.
«Vabbè,
vedremo che verrà fuori. Adesso si accerti tra quando arriva il carro dei
necrofori… Ah, dica al tenente della scientifica che ultimate le analisi, aspettiamo
in caserma i vestiti e quelle benedette chiavi. Ora vada e mi raccomando…».
«Agli
ordini Maresciallo, carro mortuario, vestiti e chiavi, sarà fatto, corro!».
– “Uh Madonna benedètte!” si disse Mariani osservando il Brigadiere allontanarsi
di gran carriera. – “L’ha dìtte e l’ha fàtte. Chi ce dàce tùtte
‘sta fòrze? Bijàta giuventù!”.
All’appello
mancava solo il magistrato e lui, dopo nemmeno un’ora di sopralluogo, sotto
quella calura era già tutto un bagno d’acqua. La camicia di ordinanza aveva due
grossi aloni scuri all’altezza delle ascelle e un’altrettanta lingua di sudore
proprio al centro della schiena. Muovendo a ventaglio il cappello, sperò solo
che il sostituto procuratore di turno arrivasse in fretta: non ne poteva più,
era allo stremo. Avrebbe dato non so che per una bella birra ghiacciata. L’afa
e il vento di favonio erano per lui qualcosa d’insopportabile, lo distruggevano,
fisicamente e psicologicamente. Guardando in direzione dello sterrato, si
augurò che ad arrivare non fosse la dottoressa Bendicenti, da circa due anni in
forza al locale tribunale. Avrebbe provato imbarazzo ad avvicinarla ridotto al
lumicino e con quel tanfo addosso. Purtroppo non fu esaudito: nell’auto che
sopraggiungeva c’era proprio lei. Rimessosi in ordine alla meglio, imprecando
contro chi sapeva lui, le andò incontro sfoggiando un sorriso.
«Buon
pomeriggio Dottoressa!».
«Anche a
lei, Maresciallo. Che abbiamo?».
«Un
cadavere, rinvenuto da un pastore, tal Giacomo Dallabrigida, abruzzese d’origine
ma residente nel comune di Apricena. Si tratta di un uomo tra i trentacinque e
i quaranta anni, alto, corporatura snella, di razza bianca, accoltellato. Sul
corpo, da un primo esame, il patologo ha rilevato oltre al colpo inferto, un
taglio che interessa l’intero addome. Sembra, è questo il parere del dottor
Minervini, deceduto per dissanguamento. Ora approssimativa della morte tra le
undici e le quattordici di oggi».
«Siamo
riusciti a scoprire chi è?» domandò la giudice giunta ormai nei pressi del
fosso.
«No, addosso
al morto non sono stati rinvenuti documenti. Solo un maz
zo di chiavi e qualche moneta nella tasca del
pantalone» rispose in tono
fermo Mariani.
«Bene,
Maresciallo, do un’occhiata e dopo
potete procedere alla rimozione del corpo».
«Comandi
Dottoressa, se ha bisogno di altri chiarimenti mi chiami pure. Vado in macchina
per predisporre al radiotelefono il ritorno degli uomini in caserma».
«Vada,
Maresciallo… ah, ottimo lavoro, grazie!».
Sostenuta
dal giovane carabiniere Marini, la dottoressa Bendicenti soppesò con attenzione
il terreno dove poggiare i piedi. I tacchi non erano proprio l’ideale per
restare in equilibrio su quell’ammasso di pietre ed erbacce. Quando l’operatore
della scientifica scostò dal viso del cadavere il lenzuolino, per poco non le
prese un colpo. Istintivamente, alla vista dell’uomo disteso e sporco di
sangue, indietreggiò restando, però, con un tacco della scarpa impigliato tra
due sassi. Perso l’equilibrio, cadde secca sulla schiena. Un ruzzolone, a giudicare
dall’urlo, parecchio doloroso.
Marini per
primo, il cancelliere Ognibene e altri militi qualche secondo dopo, si fecero attorno
per soccorrerla. Tancredi, più discosto e fuori dal fosso, appena la Giudice
finì a terra, si precipitò ad avvisare il maresciallo Mariani, ancora seduto
nell’auto di servizio.
«Maresciallo, Maresciallo presto, venga, la giudice è caduta, venga!».
«Brigadiere, si calmi, che è successo?».
«Maresciallo, la dottoressa Bendicenti appena ha visto in faccia il cadavere
ha fatto un passo indietro ed è inciampata cadendo sulla schiena».
«Dio, si è
fatta male?» domandò scaraventandosi fuori della macchina precipitandosi, senza atten- dere risposta in direzione del fosso.
Quando arrivò, la giudice l’avevano appena aiutata a risollevarsi: era
sconvolta!
Mariani, avvicinandosi
mesto le chiese: «Dottoressa, che è stato? Mi hanno detto che è caduta. Come si
sente? Ce la fa a camminare? Venga, si appoggi a me…».
«Indolenzita, ma sto bene… maledette scarpe! Avete un po’di acqua?» chiese
la donna guardandosi le mani graffiate e sporche di terra.
«Un
momento che chiedo… Tancredi, abbiamo dell’acqua per la Dottoressa?».
«Non lo so
Maresciallo, vado a vedere!».
«Mi dica,
Dottoressa, ce la fa a camminare?».
«Penso di
sì…» rispose la giudice asciugandosi gli occhi con un fazzoletto tirato fuori dalla borsa.
«Meno
male, è un buon segno. Adesso, piano piano, risaliamo prima il fosso e poi
andiamo alla sua macchina. Almeno potrà sedersi più comoda. Coraggio, si
appoggi a me» e rivolto al cancelliere perentorio disse: «Ognibene, vada alla
macchina e cerchi di avvicinarsi più che può».
«Volo,
Maresciallo» rispose il collaboratore del sostituto procuratore.
«Grazie
Mariani, le sono molto grata» disse la donna con voce sofferente, mentre due
lacrime avevano iniziato a scenderle lungo le gote.
Lui, pur
se in apprensione per l’accaduto, non poté fare a meno di notare che la Magistrata
l’aveva, con sua sorpresa, chiamato per cognome. Era, da quando si conoscevano,
la prima volta. Inoltre, il braccio di lei avvinghiato alle sue spalle, gli
permetteva di aspirare il profumo di quel magnifico corpo di cui era
segretamente attratto. Ah quante volte l’aveva sognata la dottoressa
Bendicenti, costruendo un’infinità di fantastici castelli. E ora lei era
accanto a lui, stretta a lui e la sua mano, per meglio sostenerla, le cingeva
il fianco, e attraverso le dita poteva percepire, sotto la stoffa leggera della
camicetta, la pelle morbida e soda della donna.
«Mariani,
ancora grazie… Meno male che c’era lei».
«Dovere
Dottoressa, dovere, lei mi lusinga!».
Osservandolo con la coda dell’occhio, la giudice non aggiunse altro. Ma
da come lui la stringeva, dai colpi furiosi che sentiva uscire dal petto
dell’uomo, comprese il cataclisma di emozioni che spadroneggiavano nella testa
del buon Mariani. Il corpo, se sai ascoltarlo, parla e rivela tutto. Il corpo
non mente.
– “Che situazione assurda, pensò, e che confusione!: lui è là, morto,
immobile, lontano, irraggiungibile se non nei ricordi e qui, vicino a me, c’è quest’uomo cui mi
aggrappo nascondendo il mio dolore, che mi stringe donandomi il suo sostegno;
ed io in mezzo, dilaniata tra la voglia di piangere e il piacere di stare tra
queste braccia che mi fanno sentire al sicuro, viva. Chissà cosa penserà di me
quando ascolterà ciò che ho da dirgli”.
Alla
macchina mancava ormai poco, suppergiù una cinquantina di metri. In cuor suo
Mariani avrebbe preferito fossero non cinquanta ma cinquecento. Pur se la Giudice
si appoggiava ancora totalmente a lui, la sentiva meno rigida, più rilassata.
Anche i lineamenti del viso erano meno tirati di prima.
«Allora,
Dottoressa, come va? Stia tranquilla, è solo una brutta botta,
pochi giorni di riposo e sarà solo un ricordo, un
caso, come dite voi giudici, da archiviare» affermò il Maresciallo abbozzando
un sorriso.
«Sì, ha
ragione, poteva andar peggio. Quando sono caduta, ho sentito le ossa della
colonna scricchiolare e, là per là, ho temuto che si fosse rotto qualcosa. Di
male fa male, appena tornerò a casa, prenderò un paio di antidolorifici e mi
metterò a letto. Mariani, in macchina salga anche lei, ho da rivelarle qualcosa
su Carlo Moresi».
«Scusi
Dottoressa, non la seguo, chi sarebbe questo signor Moresi?» domandò inarcando
le sopracciglia.
«Maresciallo è l’uomo disteso nel fosso. La prego, ora non mi chieda più
niente. Ne riparleremo in macchina» rispose lei cupa, forse già infastidita al
pensiero della trafila burocratica che la attendeva, con la sfilza di
deposizioni dalle quali l’intero tribunale avrebbe saputo dei suoi trascorsi
privati. Inoltre, le seccava dover mollare il caso. Gli omicidi, nel territorio
sotta la giurisdizione della Procura, erano l’unico vero banco di prova su cui
professionalità e merito potevano dimostrarsi.
Giunti
alla macchina, Mariani la aiutò a salire.
«Oh,
finalmente… che sollievo, grazie!» disse lei fissandolo negli occhi e appoggiando
la sua mano su quella del Maresciallo. E quando anche il sottoufficiale occupò
il suo posto, arrivò il brigadiere Tancredi che, con voce trafilata, consegnò
al suo superiore una bottiglietta smezzata di acqua.
«Mi spiace
Maresciallo, ma non c’era altro, solo questa» disse il sottoposto dispiaciuto.
«Pazienza
Brigadiere, va bene così… Dopo, con calma, si assicuri che la salma sia rimossa
e prepari gli uomini a rientrare. Io vi raggiungo tra un momento».
«Comandi
Maresciallo, me ne occupo subito!».
«Allora,
Dottoressa, cosa ha da rivelarmi sull’uomo assassinato?».
«Come le
ho accennato, si chiamava Carlo Moresi, romano di origine, però domiciliato qui
da oltre un anno e mezzo. Faceva l’ingegnere alle dipendenze della Snam
progetti, l’azienda incaricata di costruire la rete per la distribuzione del
metano in tutta la nostra provincia. Io l’ho conosciuto diversi anni fa quando
prestavo servizio nella capitale. In seguito ci siamo persi di vista, non avevo
la minima idea che vivesse a S. Severo. Un giorno ci siamo incontrati per caso
in un ristorante del capo-
luogo e per sei sette mesi abbiamo ripreso a
frequentarci…».
«Sta
dicendomi che avevate una relazione?» domandò il Maresciallo.
«Anche se
io non la definirei in questo modo, le rispondo sì, avevamo una relazione. Più
precisamente ci siamo rimessi insieme, ciascuno, però, abitando in casa propria».
«Da quando
avete smesso di vedervi?».
«Meno di
un anno».
«Quali
furono le ragioni che interruppero la vostra frequentazione?».
– “Ecco, ci siamo, lo sapevo che me l’avrebbe
chiesto, era ovvio che lo facesse. Che gli dico? Uh quanto m’imbarazza parlare
di queste cose… però, se non glielo dico, è peggio, alla fine qualcuno, perché
c’è sempre qualcuno informato sui fatti degli altri, li metterà a conoscenza
che mi ha lasciata; lasciata per correre appresso a quella Sandra Altomare, la
moglie del suo capo cantiere. Maledizione, perché dovevo essere di turno
proprio oggi? Mariani, almeno tu non mi giudicare male: in quella relazione ci credevo,
avevo fatto progetti… ma appartiene al passato”.
Dinanzi al
prolungato silenzio della donna, il Maresciallo con delicatezza disse:
«Dottoressa, non sta bene? Gradisce che ne riparliamo domani?».
«No, caro
Mariani, mi scusi, sono un po’ intontita, ma preferisco continuare. Non mi
aspettavo di trovare in una pozza di sangue quella persona… Le rispondo dicendole
che tra noi è finita quando mi sono accorta dei suoi continui tradimenti. Come
vede, niente di così strepitoso, è il più banale dei motivi che determina la
fine di tante relazioni».
«E lei, mi
scusi per la domanda, sa con chi Moresi la tradiva?».
«Si
trattava della moglie di Ferruccio Altomare, il suo capo cantiere. Facevamo
spesso gruppo: cene, gite sul Gargano, qualche serata in discoteca. Le solite
cose tra coppie che si frequentano, né più né meno. Lui, Carlo, dopo un paio di
mesi che stavamo insieme, aveva però iniziato a essere scostante. Era perennemente
stanco e nervoso, alzava la voce per un non niente. Pensi che a volte, con la
scusa degli impegni di lavoro, non lo vedevo per giorni; si faceva persino
negare al telefono. Deve essere stato allora che ha iniziato la tresca con quell’altra,
senza che io mi accorgessi di niente. Mi sono trovata a vivere con un estraneo,
tutt’altra persona rispetto agli anni di Roma. Per me la nostra storia è finita
in quel momento».
«Capisco.
Che cosa può dirmi del capo cantiere?».
«Parlandole con franchezza, senza preoccuparmi della decenza, Ferruccio
lo definirei il classico e servizievole buon
cazzone, uno anonimo, tutto moine e sorrisetti, anche se ho spesso notato
nei suoi occhi certi lampi di cattiveria repressa, tenuta a bada. È nato qui,
ha il diploma di geometra; Carlo l’aveva ingaggiato perché nell’ambiente
operaio conosceva tutti. Non so però come fosse sul lavoro, so solo che in
certe circostanze, tipo scioperi e malcontenti, sapeva chi far intervenire – le
riporto le testuali parole di Carlo – per ristabilire l’ordine mettendo tutti
in riga».
«Insomma
un personaggio dalle molte facce questo signor Altomare. Bene, Dottoressa, per
oggi mi fermerei qui. Le consiglio di andare a casa e dormire. Domani, se non
la disturba, le telefono per sapere come sta…».
«Telefoni
e magari passi a bere qualcosa di fresco a casa mia. L’aspetto e buon rientro
in caserma, Maresciallo Giorgio Mariani».
«Grazie
Dottoressa, accetto volentieri e, mi raccomando, si riguardi!».
Rientrato
in caserma, Mariani riunì nel suo ufficio i suoi più diretti collaboratori
informandoli di quanto appreso dal Sostituto Procuratore. Accertata l’identità
della vittima, l’indagine era formal- mente aperta su ogni aspetto della vita del
signor Carlo Moresi. Furono stabiliti sopralluoghi nel suo appartamento, nei
locali della Snam e avviate le procedure per il controllo dei computer,
telefoni e conti bancari. Fu, inoltre, disposta la convocazione dei colleghi
di Moresi e della signora Sandra Diotallevi in Altomare.
La mattina
successiva arrivò via fax dal Tribunale una circolare nella quale il Procuratore
Generale designava, in sostituzione della Giudice, il dottor Bramante quale titolare
dell’inchiesta.
A quattro
giorni dal ritrovamento del cadavere gli inquirenti, acquisite prove documentali
e analizzati i tabulati telefonici della vittima, scoprirono un numero ricorrente,
un’utenza intestata a tal Pasquale Giordano, di anni ottantatré, bracciante in
pensione. La cosa più curiosa furono diversi sms risalenti alla suddetta utenza
che invitavano Carlo Moresi a “farsi da
parte” oppure contenenti frasi sibilline del tipo: “Dimenticati di quello che stai facendo, togli le mani da cose che non
avresti dovuto nemmeno toccare”. Anche l’analisi dei computer dette buoni
risultati: sia nel portatile sia in quello dell’ufficio di Moresi, furono
rinvenute alcune e-mail dal contenuto analogo agli sms. In particolare, destò
molto interesse un messaggio nel quale era scritto: “Giacché continui a fregartene di quanto ti abbiamo già detto a voce, ti
do un consiglio a gratis: ora cambia aria, perché quella garganica non ti fa
bene, altrimenti ti aspetta la vista degli alberi pizzuti”, cioè dei
cipressi, notoriamente alberi che abbelliscono i cimiteri. Nel caso dei
messaggi telefonici, era chiaro che si trattava di una scheda attivata a totale
insaputa dell’ottantatreenne bracciante. Risalire all’ID di chi aveva inviato
le e-mail, fu impossibile, nonostante tutti gli sforzi della polizia postale.
Nessun
utile riscontro pervenne invece dai conti bancari e stesso esito negativo
diedero le perquisizioni negli uffici della Snam e nell’alloggio privato della
vittima. In quest’ultimo furono ritrovati solo alcuni capi femminili mai usati,
ancora imbustati nella plastica del negozio e, quindi, inservibili per rilevare
eventuali tracce di DNA.
Non
restava che ascoltare colleghi di lavoro e amici di Moresi, convocati con la
motivazione “perché informati dei fatti”, anche se il maresciallo Mariani,
allo stato delle indagini, un’idea del possibile movente ce l’aveva chiara
nella sua testa.
Il sesto e
settimo giorno dal ritrovamento del cadavere, alla presenza del sostituto
procuratore dottor Bramante, furono interrogati nella locale stazione dei carabinieri
tutti gli interessati. Volutamente furono sentiti a parte i coniugi Altomare.
Quando
toccò a loro, era l’ottavo giorno dalla data di apertura delle indagini. Il
Giudice e il Maresciallo si divisero il compito: uno avrebbe interrogato la
donna, l’altro suo marito. A Mariani, con sua personale soddisfazione, toccò il
signor Altomare.
Forse
perché influenzato dal giudizio che le aveva espresso Francesca Bendicenti, nel
frattempo divenuta sua intima e notturna frequentazione, quel tipo gli stava
sullo stomaco. Non gli piaceva proprio uno che per sedare lamentele e proteste
sindacali faceva ricorso a boss malavitosi. Così s’insozzava, era la sua idea,
quel poco che ancora restava di buono del meridione.
*
«Signor
Altomare, mi parli del suo rapporto con l’ingegner Carlo Moresi» esordì il
Maresciallo che, fatta una breve pausa, aggiunse: «So che non vi limitavate a
vedervi sul lavoro, ma anche fuori. Sono dicerie o corrisponde a verità?».
«All’inizio,
quando mi ha voluto alle sue dipendenze, i nostri rapporti
erano limitati al lavoro. In seguito, sa come
succede Maresciallo, da còse nàsce còse e àmme pegghijàte a frequentàrce più
privatamente».
«Che cosa
intende per più privatamente?» domandò Mariani.
«Mah…
qualche serata al bar, due chiacchiere per l’aperitivo, ‘i còse ca se fànne tra
amici».
«Un caffè,
l’aperitivo… null’altro?».
«No Maresciallo, questo all’inìzzije. Essendo
io sposato, ricordo che chiesi a Carlo… all’ingegner Moresi che sarebbe stato
carino vedersi in quàtte: io, lui, la sua fidanzata e mia moglie. Lui accettò
di buon grado e fu così che cominciammo a uscire con una certa regolarità, soprattùtte
u’ sàbbete e ‘a dumèneche. Eravamo alquanto affiatati e l’ingegnere, con la
signorina Francesca accanto – Ma- resciallo, proprio ‘na bella còcchije – diventava
un’altra persona: allegro, alla mano, disponibile…».
«Un bel
quadretto, peccato che a noi risultino certe voci non proprio così idilliache».
«Che voci
Maresciallo e referìte a che? Questa è la mia vita privata, vùije nen tenìte u’
derìtte…».
«Stia
calmo, stiamo solo parlando. Inoltre qui le domande le faccio io. Lei deve solo
rispondere e, tanto per essere chiari, dinanzi un omicidio non esiste vita
privata».
«Scusi,
Maresciallo, ‘i ‘nsenuaziòne m’annervusìscene… sìme u’ paèse di màle lènghe,
quanto le odio!».
«Stando
alle sue parole, quindi afferma il falso chi sostiene che tra Carlo Moresi e
sua moglie ci fosse più di un’amichevole simpatia?».
«Amicizia,
Maresciallo, niente di più, cùme ve l’agghija dìce! Le sembro un tipo che non se ne sarebbe accorto?».
«Senta,
geometra Altomare, noi abbiamo acquisito molte testimonianze che ci dicono il
contrario. Comprendo il suo imbarazzo, non è piacevole ammettere il tradimento
della propria moglie con un amico, per di più datore di lavoro. Non le conviene
mentire. Se proprio vuol saperlo, anche sua moglie l’ha ammesso confessando, una
mezzora fa al dottor Bramante, di aver avuto una relazione con l’ingegner
Moresi. Allora, mente anche lei? E mentono tutti gli altri? Senta l’avviso:
basta con questa farsa. Se intende continuare con la storia dell’amicizia e
della simpatia, sarò costretto a trattenerla con l’accusa di reticenza. Qualche
giorno in camera di sicurezza la aiuterà a riflettere. A lei la scelta!».
Messo alle
strette, il geometra Altomare piegato tutto in avanti, si portò entrambe le
mani sulla faccia. Scuoteva la testa da una parte all’altra dicendosi tra sé: –
“Sànne tùtte, sànne tùtte…”. Dopo qualche minuto si risollevò e prese a parlare: «Maresciallo… sì,
basta, è tùtte vère, ije nen m’ère addunàte de nìnde. Poi, un pomeriggio
casualmente l’agghije vìste ‘nzìme e l’agghije ijùte apprìsse sino a che non sono saliti nell’appartamento dell’Ingegnere. Sandra è ‘sciùte
da là che era quasi sera. Correva, immagino per essere a casa prima che io
rientrassi dal lavoro. Difatti, quando aprii la porta di casa nostra, lei era
in cucina. Mi disse che era pronto, u’ tìmbe de mètte i piàtte a tàvele. Ma chi
tenève vulìje de magnài… Le dissi che l’avevo vista assieme a Carlo e che
l’avevo seguita. Lei, dapprima negò; poi, piangendo, affermò che non si trattava
di una sbandata, ca s’ère ‘nnammuràte e ca tenève ‘ntenziòne de cumbessàrme
tùtte appena Carlo avesse chiarito il suo rapporto con la signorina
Francesca».
«A quando
tempo fa risale quest’episodio?».
«Oltre un
anno».
«Quindi,
mi corregga se sbaglio, sua moglie, confessando la relazione con Moresi, le
avrebbe espresso la volontà di separarsi da lei. È giusto?».
«Sì, Maresciallo».
«Se è
giusto, mi dica, come mai a noi risulta che la signora, anche dopo la rottura
della relazione tra Moresi e la signorina Francesca Bendicenti, ha continuato a
vivere con lei e non ha mai presentato alcuna istanza di separazione? In altre
parole, vi siete rappacificati?».
«Maresciallo, Sàndre pe’ mè è tùtte. Dopo la sua confessione, io màgghije
alluntanàte da chese pe nu pàre de settemàne. Ho
riflettuto e ho deciso che non m’importava, ca n’a vulève pèrde. Una sera mi
sono presentato a casa nostra, àmme parlàte, le ho detto che la perdonavo, ca
stèmme facènne ‘na pacc’je a lassàrce».
«E qual è
stato l’atteggiamento di sua moglie?».
«Mi
ascoltato senza mai interrompere e quando io ho finito, mi ha detto solo poche parole:
– ”Sono commossa, nen m’aspettàve ca decìsse ‘sti còse. Pensavo mi avresti
ingiuriata. Ora so che mi ami davvero. Ne parlerò con Carlo, è giusto che
anche lui sappia. Ferrù, si vùije, tùrne pùre a’ chese”. Ecco, Maresciallo, le ho ripetuto le sue esatte parole, le ho impresse
nel cervello, chi può dimenticarsele!».
«Geometra
Altomare, le andrebbe un caffè?».
«Un
caffè?… Certo, Maresciallo!» rispose stupito.
«Resti
pure qui seduto, vado e torno» disse Mariani uscendo dalla stanza, presidiata
in sua assenza dal brigadiere Tancredi.
Le
dichiarazioni di Altomare avevano affondato ogni ipotesi che si era costruita
nella testa. Gli serviva riflettere, riordinare le idee. Ormai si stava
convincendo che Altomare, con la morte di Moresi, c’entrava come il due di
briscola. Fermo davanti al distributore del caffè analizzò velocemente i
fatti: – “Se non è stato lui ad assoldare l’assassino, il professionista capace
di affondare il coltello e di tagliare da parte a parte un uomo senza lesionare
nessun organo interno, chi è stato? Di certo si tratta di un omicidio su
commissione, ma la pista valida è ancora quella passionale?”.
Rientrò
nella stanza con tre caffè in mano e un mucchio di domande nella testa cui non
sapeva dare risposta.
«Allora,
signor Altomare, dopo che successe? Sua moglie parlò con Moresi?».
«Maresciallo, quello che accadde in seguito, vale a dire un mese e mezzo
dal nostro colloquio, pe mè è ancòre nu mestère. Mia moglie e l’Ingegnere hànne
parlàte securamènde tra lòre. Che s’hànne dìtte, nu pòzze sapè, ma una sera Sandra è tornata a casa sconvolta: chiagnève e gastemàve
còntre a ìsse. A un certo punto mi è venuta vicino e sedendosi a terra,
stringendomi le gambe, ha iniziato a implorarmi di perdonarla, che quello
sciagurato nenn’ère dègne mànghe de pulezzàrme ‘i scàrpe. Da quel giorno credo
non si siano più incontrati».
«Lei, che
idea si è fatta?».
«Le ripeto
Maresciallo, è nu mestère. Tempo fa, però,
non ricordo perché l’argomento sia venuto fuori, ma èsse s’è fàtte scappà che Moresi si era invaghito di un’altra donna, pur’èsse spusàte; e mi
disse che lui, la sera del loro definitivo litigio, pronunciò parole per lei
senza senso, si n’amma recòrde malamènde frasi del tipo “tornatene da
Ferruccio, ti conviene, non vorrei mai che quelli se la prendessero pure con
te. Quella è brutta gente!”. Maresciallo, l’àgghije dìtte tùtte!».
«Altomare,
un’ultima domanda: nei giri delle persone che lei conosce, e ha compreso a chi
mi riferisco, le risulta che qualche uccellino abbia messo il becco fuori della
gabbia?».
«Maresciallo, che mi vuole fare dire? Quelli là sono come i cavi
dell’alta tensione, chi tocca muore…».
«Altomare,
che fa, ricomincia?».
«No, Maresciallo,
pe’ caretà de Dìje… si parla di qualcuno molto in alto che ha pèrse u’ sùnne,
ca sé ‘rrevutàte u’ stòmeche. Di più non le so dire».
«Ha
sentito anche lei brigadiere? Il nostro geometra Altomare, dopo una cantata del
genere merita di riposarsi. Dobbiamo farlo sapere che belle canzoni abbiamo avuto il piacere di ascoltare. Magari
a qualcunaltro gli verrà la voglia di sentirle. D'altronde più aumenta il
pubblico, più il cantante diventa famoso, o no?».
«Maresciallo,
ma vùije stìte pazziànne? Mi volete vedere morto?».
«Altomare,
chi è che non digerisce più? Noi siamo preoccupati per lui, la salute e il
benessere dei cittadini sono parte della nostra missione. Un bel consulto tra
dottoroni e problema risolto! Allora, lo vogliamo aiutare o no questo cittadino
in difficoltà?».
«Maresciallo, si tratta di Giggìne còre ‘e càne, cùme ‘u chiamene a San
Severo. Di nome fa Luigi, u’ chegnòme n’u canòsce».
«Altomare,
ora è libero di andare, ma si tenga a disposizione» disse Mariani indicandogli
con un gesto della mano la porta.
«Caro
Brigadiere, siamo tornati punto e a capo! Lei ha qualche idea da suggerirmi?».
«Maresciallo, per prima cosa dovremmo informare il giudice Bramante
delle dichiarazioni rese dal geometra Altomare. Dichiarazioni che lo scagionano
definitivamente. Inoltre, per avere conferma delle voci che girano su quel tal
Giggìne còre ‘e càne, attiverei i nostri informatori. Magari qualche altra
notizia riusciamo a saperla».
«Bravo Tancredi,
se avessero domandato a me, avrei risposto come lei. Bravo! Sono le diciotto e
trenta, chissà se Bramante è ancora in ufficio. Brigadiere, provi a chiamarlo e
se c’è, me lo passi».
«Caro
Mariani, stavo aspettando la sua telefonata. Novità?».
«Signor Giudice, ho finito di interrogare
Altomare da una decina di minuti. Lui non c’entra niente con la morte di
Moresi, ma ci ha fornito qualche pista che reputo interessante».
«Maresciallo, se è d’accordo, verrei domattina da lei in caserma. Credo
che sia necessario fare il punto della situazione e stabilire nuovi filoni
d’indagine. Le va bene per le dieci?»
«Più che
bene, Dottore! Allora a domani in caserma. Le auguro una buona serata!».
«Brigadiere, vista l’ora, credo che un aperitivo ce lo siamo guadagnati.
Venga, andiamo a sederci in piazza, ai tavolini dello Splendor. Se non mi
sbaglio ‘a barrìsta nòve…eh Tancredi?».
«Maresciallo, la prego, non si faccia sentire dai colleghi, altrimenti
per me è finita».
Quando
iniziò l’incontro tra il Sostituto Procuratore e i militi dell’Arma erano trascorsi
dieci giorni dal ritrovamento dell’ingegner Carlo Moresi.
«Maresciallo, mi sa che non abbiamo altro. Sappiamo com’è registrato
all’anagrafe questo Giggìne detto “còre ‘e càne”?» chiese il giudice Bramante pronunciando quell’appellativo all’emiliana,
la terra da cui proveniva.
«Ho qui la
scheda, con le note del casellario: Luigi Bonocore, di anni quarantatré, nato a
San Severo, condannato per furto con scasso, rapina a mano armata, estorsione,
traffico di armi e sostanze stupefacenti e per sfruttamento della
prostituzione. Assolto dall’accusa di favoreggiamento dell’emigrazione
clandestina e assolto, per non aver commesso il fatto, dall’essere il mandante dell’omicidio
Gambardella, il parroco fondatore dei centri “Umani Sempre”, sorti per
accogliere ex prostitute e clandestini. Scusi Dottore, c’è una annotazione
scritta in piccolo… ecco, dice “assoluzione dovuta alla morte del principale
teste dell’accusa, stroncato nel suo letto da un’overdose di eroina”. E te
parève! Inoltre, assolto… un momento, c’è un’altra nota in cui è scritto “anche
in questo caso per la morte del teste dell’accusa” – e so’ dùije! – dai reati
di traffico e interramento sostanze tossiche. Eh che bell guàglione!… Dottore,
un tipo ammodo e cittadino esemplare il nostro Giggìne còre ‘e càne» disse ironico Mariani che,
aperto un altro fascicolo, soggiunse: «Leggo dalla nostra informativa queste
altre note. “Sposato dall’Agosto duemilacinque con Monica Dellicarri, di anni
ventiquattro, nativa di Lucera e residente a San Severo, Bonocore non risulta
avere figli”. Questo è quanto, signor Giudice…».
«Sposato
da tre anni e ancora senza figli? Questa sì che è una notizia… chissà i
quintali di pettegolezzi!» rilevò sorridendo il dottor Bramante rivolto al
Maresciallo.
«Se è lei,
la signora Dellicarri, l’amante segreta di Moresi, ci troviamo davanti a una
donna che, pur sapendo a quale rischio si esponeva, si è buttata tra le braccia
di un altro per sopperire alle scarse attenzioni del marito» notò Mariani toccandosi allusivamente un orecchio.
«Sì, forse
è così, Maresciallo, vedremo! Io, però, non mi limiterei solo alla cosiddetta
pista passionale. Smuoverei le acque dove gli squali vanno a mangiare, dove ci
sono i soldi, dove si combinano gli affari. Il giro di denaro che ruota attorno
agli appalti per portare il metano in svariati comuni di questa provincia
ammonta a svariati milioni di euro, ed era Moresi, per conto della Snam, che
firmava contratti e relazionava con le amministrazioni pubbliche. Dovremmo
ritornare a ispezionare gli uffici dell’azienda, mettendo il naso in ogni
fascicolo, analizzando i contratti, passando al setaccio l’elenco delle ditte
appaltatrici, vagliando i nomi dei titolari e degli amministratori;
controllando la corretta applicazione di tutti i requisiti antimafia previsti dalle
leggi sugli appalti pubblici. Ciò vale anche per e le amministrazioni
interessate: nomi di sindaci, assessori, uffici tecnici, verificando la
corrispondenza tra delibere, progetti approvati ed esecuzione dei lavori» disse
il dottor Bramante.
«Signor
Giudice, è un lavoro immane, la nostra è una piccola stazione e l’omicidio Moresi
non è il solo caso su cui siamo impegnati» gli ribatté Mariani assumendo una espressione
preoccupata.
«Certo,
Maresciallo, me ne rendo conto e lei fa bene a porlo in evidenza. Io mi sto
convincendo che dietro questo caso si celi altro e che alcuni clan, legati alla
Sacra Corona, vogliano deviare la nostra attenzione mettendoci sulla pista del
delitto passionale. Ho anche il sospetto che sia in atto una sotterranea guerra
per il controllo del territorio, e quale migliore occasione per liberarsi,
senza colpo ferire, dell’incomodo
facendo fare a noi gli spazzini? Per questo motivo ho interpellato il vostro
Comando Provinciale, la Dia e la Guardia di Finanza. In quella sede abbiamo
convenuto di dividerci i compiti. A lei e ai suoi uomini resterà l’indagine sul
cosiddetto movente passionale. Alla Guardia di Finanza toccherà la parte delle
ispezioni alle varie ditte coinvolte, mentre la Dia si occuperà di scoprire
possibili legami e infiltrazioni tra pubblici amministratori e famiglie
camorriste. Appena sarà possibile, ci rivedremo nuovamente per fare il punto
della situazione. Signori vi auguro buon pranzo!».
«Brigadiere, ha sentito? Tocca a noi seguire la pista passionale» disse
Mariani.
«Maresciallo, se mi permette, per noi è impossibile presentarci in casa
Bonocore esibendo un mandato di comparizione. Ci riderebbero dietro!» osservò
Tancredi.
«Ha
ragione Brigadiere, bisogna escogitare…».
«Scusi,
Maresciallo, se la interrompo: che ne dice se mettiamo sotto controllo la casa
e alla prima occasione che la donna esce da sola, esibendo il tesserino di
riconoscimento, le chiediamo di seguirci in caserma per fornire delle
informazioni?».
«Mi sembra
un’ottima idea. L’unico rischio è che possa dire di no; oppure che si
presenterà a suo comodo, ovviamente insieme a uno degli avvocatoni del marito.
Se però abbiamo intuito lo stato dei suoi rapporti coniugali, andrà tutto
liscio, lei accetterà, se non altro che
per fare un dispetto a còre ‘e càne, o’ capaddòzzije. Comunque vale la pena
tentare. Organizzi una macchina civetta con due colleghi a bordo in abiti
civili e stabilisca dei turni di sorveglianza. Precisi che devono essere
invisibili. La signora va avvicinata lontano dalla casa. Mi raccomando,
Brigadiere, avvisi di stare con gli occhi sempre aperti: quella è gente
pericolosa, dalla pistola facile. Se ci bruciamo questa carta siamo fritti!».
«Vado,
Maresciallo, massimo mezzora e le farò avere la lista dei turni col nome degli
uomini impegnati».
Restato
solo, Mariani telefonò al comando provinciale: «Pronto, parlo col signor
maggiore Sciortino?».
«Sì, chi è
all’apparecchio?».
«Signor
Maggiore, comandi, sono il maresciallo Mariani, buon pomeriggio!».
«Oh,
Mariani, buon pomeriggio anche a lei, in cosa posso esserle utile?».
«Signor
Maggiore, si tratta del caso Moresi, volevo informarla di alcune decisioni
operative…».
«Sì, il
caso Moresi, proprio ieri ce ne parlava,
qui al comando, il giudice Bramante, compli- mentandosi per l’efficienza
sua e degli uomini mostrata nelle indagini. Scusi, Maresciallo, l’ho
interrotta, stava dicendo di alcune decisioni operative, l’ascolto».
«Signor
Maggiore, avrei deciso di porre sotto sorveglianza – h/ventiquattro – casa Bonocore. Non avendo la possibilità di
notificare direttamente alla moglie un ordine di comparizione senza che il
marito ne venga a conoscenza, ho pensato di avvicinare la donna quando esce
sola da casa, chiedendole di seguirci in caserma per delle informazioni in suo
possesso. Credo che sia l’unica carta da giocare, a meno che lei non abbia
altri suggerimenti».
«No,
Maresciallo, mi sembra un’ottima iniziativa. Le chiedo solo prudenza e cautela.
Inoltre, quando la signora sarà in caserma, avvisi subito il dottor Bramante.
Sarà lui a darvi altre disposizioni. Maresciallo: prudenza e cautela e speriamo
il piano riesca. Ci tenga informati, più tardi provvederò io stesso a mettere
al corrente il colonnello De Vigili della vostra iniziativa».
«Grazie,
signor Maggiore, comandi!».
Casa
Bonocore era una villa con tanto di parco e piscina, ubicata all’estremità del
paese, dove la strada si inerpicava leggermente verso le colline, dando
l’impressione di dominare la spianata sottostante. Circondata da alti muri
perimetrali era controllata di notte e di giorno da due auto: una all’imbocco
del cancello di entrata, l’altra in sosta all’inizio della via.
Non fu
semplice per gli uomini di Mariani rendersi invisibili.
Dovettero sostare a oltre trecento metri dalla seconda auto appostata a difesa
del boss e dotarsi di un potente binocolo per tenere costantemente sotto controllo
quanti entravano o uscivano dalla villa.
Nel tardo
pomeriggio del terzo giorno la loro costanza fu però premiata. Alla guida di
un auto modello cabrio si videro sfilare davanti la signora Dellicarri. Dopo
essersi assicurati che nessun altro veicolo la seguisse, percorsi pochi
chilometri l’affiancarono imponendole di fermarsi. Condotta in caserma, passati
cinque minuti, il tempo necessario perché il brigadiere Tancredi potesse
avvisare il giudice Bramante, fu introdotta nell’ufficio di Mariani.
«Signora
Dellicarri, grazie di aver accettato il nostro invito. Sono il maresciallo
Mariani, comandante di questa stazione dei Carabinieri. L’ho convocata per
farle qualche domanda, prego si metta comoda…».
«Maresciallo, àgghije fàtte qualcosa de malamènde?».
«No,
signora, stia tranquilla, niente di tutto questo. Si tratta di semplici informazioni.
Noi sappiamo della sua amicizia con l’ingegner Carlo Moresi e vorremmo ci
dicesse qualcosa in merito… perché voi eravate amici o ci hanno male
informati?».
«Maresciallo, io non tengo niente da dire, so’ fatta mije prevàte e dato come avete detto che non ho commesso niente de malamènde, vi
saluto e…».
«Signora,
non sia precipitosa… prima l’ho ringraziata per essere venuta a parlare con
noi, si tratta di una formalità, risponde a qualche domanda e poi è libera di
andare».
«Va bene, ma
facìme sùbbete sùbbete, ca tènghe i menùte cuntàte. Cosa volete sapere?».
«Se
conosceva l’ingegner Moresi e di che tipo era la vostra frequentazione».
«Io Moresi
lo conosco, sìme amìce…».
«Amici o
qualcosa di più?» chiese Mariani che, fatta la domanda, vedendola però armeggiare
nervosamente con le mani sulla borsa, per rassicurarla, in tono comprensivo
aggiunse: «Signora, non si senta in imbarazzo, qui può parlare liberamente. Ciò
che dirà resterà in questa stanza, glielo garantisco».
La signora,
accavallando e scavallando le gambe, guardò dapprima negli occhi il Maresciallo
e, infine, dopo aver tirato un profondo respiro ruppe il silenzio: «Pòzze ave’
nu becchìre d’àcque?».
Mariani,
con un gesto della testa autorizzò il Brigadiere, il quale porse alla donna
quanto aveva chiesto. Si intuiva che lei stava prendendo tempo, il tempo per
calibrare la risposta più adeguata. Da parte sua il Maresciallo, osservandone
ogni piccolo movimento, ripensò a quanto la donna aveva già detto, all’uso al
presente del verbo conoscere riferito a Moresi: o non sapeva della morte
dell’uomo o lo sapeva e volutamente stava mentendo.
«Va meglio
signora? Se la sente ora di rispondere?» domandò in tono gentile il
Maresciallo.
«Sì, con
Moresi ci frequentiamo, l’àgghihe canesciùre ‘na sère a casa di Silvana Diotallevi, un’amica comune. Io stève da sòle, a mio
marito non piacciono le feste, e ìsse pe’ tùtte uì tìmbe ha cuntenuàte a stàrme
arrète, decènneme paròle ca nesciùne crestiàne m’avève màije dìtte. Ricordo le
risate ca c’àmme fàtte e poi, io tènghe nu debole pi’ frustìre e ìsse, che
quillu dialètte romàne…. ère nu spàsse. Finita la festa mi diede il suo numero di
telefono e prima che io andassi via, mi ha baciato la mano, cùme ìnde a quilli
film ca se vèdene a’ televesiòne. Mi sentivo una principessa. Non facevo che
pensarlo. Passàte qualche jùrne, mi sono decisa e gli ho telefonato. Con mio
marito ho trovato una scusa e sono riuscita a uscire da casa e l’agghije finalmènde vìste n’ata
vòte. Mi sembrava
di stare vivendo un sogno. Ogni volta che ci vedevamo era qualcosa di stupendo,
ìsse m’ha fàtte sènde per la prima volta ‘na fèmmene. Lei, Maresciallo, non può capire: ‘a delecatèzze e ‘a gentelèzze di Carlo rispetto a quill càfone di mio marito: cùme u’ jùrne e ‘a nòtte. Un sogno, un sogno bello e impossibile…».
«Prego,
prosegua» la incitò Mariani.
«Maresciallo, non esce niente da questa stanza, è così?».
«Tranquilla,
vada avanti».
«Voi, mio
marito sapìte bùne chi è e che fàce. Io non lo amo, l’ho dovuto sposare perché
mio padre ha velùte accussì. A un uomo potente non si può dire di no.
Maresciallo, sono più di quindici giorni che Carlo è sparito, il suo telefono
squilla a vuoto, io mi sento di impazzire. Chiusa in quella maledetta casa m’assemmègne
de sta’ ‘n galère. Marescià, è
successo qualcosa a Carlo? Me lo dove- te dire, è da quando mi avete chiesto se lo conosco che me stàche addummannànne pecchè
stàche qua, nella caserma dei Carabinieri… Parlate, una disgrazia? Me lo
dovete dire».
«Tancredi,
versi ancora dell’acqua nel bicchiere della signora» disse Mariani al
Brigadiere e rivolto alla donna, scegliendo le parole, accomodandosi sulla
sedia di fronte alla sua, le parlò accorato: «Purtroppo devo darle una brutta
notizia: in una campagna isolata abbiamo ritrovato il cadavere dell’Ingegnere.
Lo hanno accoltellato e lasciato in un fosso che era ancora vivo. Le risparmio
ulteriori dettagli. Le nostre indagini ci hanno condotto a lei, ma non ancora
al suo assassino e a chi ha ordinato di ucciderlo. Siamo in un vicolo cieco. A
momenti arriverà il Giudice titolare delle indagini. Lei gli racconti quanto ha
già detto a me, senza omettere nulla. Magari le torna in mente qualche altro
particolare che possa aiutarci a risolvere il caso».
Al termine
di un’altra ora di domande, il dottor Bramante ritenne di aver acquisito dal
racconto della signora Dellicarri molti elementi utili. La donna si rese
disponibile a collaborare senza riserve. In lei era subentrato, all’odio che
già provava verso il marito, un sentimento di vendetta.
«Signor
Giudice, ce l’àgghija fa’ paga a quillu pùrche mèzzafèmmene!» disse la signora
lasciando l’ufficio di Mariani.
«Dottor
Bramante, e adesso come ci comportiamo?» chiese il Maresciallo.
«Le rispondo
citandole un detto contadino delle mie parti: “Non resta che aspettare, il
ragno sta tessendo la tela”. Abbiamo chi ascolta e fa domande per noi
dall’interno e quella donna è seriamente intenzionata a consegnarci suo marito
su un vassoio d’argento. Ha visto che occhi inferociti aveva quando è uscita?
Vedrà, non passeranno molti giorni…» affermò con voce pacata il Sostituto Procu- ratore.
«Speriamo,
vorrei essere ottimista come lei Dottore. Anche se mi sono convinto che è stato
il cornuto a dare l’ordine di far
fuori Moresi, c’è qualcosa che non mi torna, come un fastidioso bru- ciore allo
stomaco…».
«Cosa la
disturba Mariani?» chiese il Giudice.
«Per
esempio, perché hanno fatto trapelare la voce del tradimento della signora?»
«Maresciallo,
credo di non sbagliare se dico guerra tra cosche. Secondo lei, una donna come
quella, le sembra un’ingenua? Ne avrà preso di accorgimenti eppure… Qualcuno
la teneva sotto controllo e ha spifferato, magari non direttamente a Giggìne ma
nell’ambiente, che gli metteva le corna. Giggìne
Bonocore, offeso nell’onore, per non perdere la faccia, a suo modo ha fatto
i compiti a casa, completando l’opera».
«Sì, ci
sta, regge. Povera donna e poveri noi… caro Dottore, quella gentaglia mi fa
paura, della vita non gliene frega niente, gli importa solo dei soldi…».
«Maresciallo, se è preoccupato per la signora Dellicarri le misure adottate,
considerato il tempo a disposizione, erano il massimo che potessimo fare. Le
auto di sorveglianza più i microfoni ambien- tali che le abbiamo consegnato ci consentiranno un monitoraggio continuato,
e noi siamo pronti a intervenire alla prima avvisaglia di pericolo. Mi auguro
solo nessuno scopra che sta collaborando. Le ripeto, Mariani, il ragno sta
tessendo la tela, non resta che
aspettare!».
«Scusi
Dottore, come vanno le indagini sugli altri versanti?».
«Qualcosa
si sta muovendo, abbiamo già riscontrato un’enorme quantità di illeciti. L’illegalità
purtroppo qui è di casa, ma sono certo che gli assesteremo una bella botta. Serve
solo tempo: ci sono ancora da vagliare montagne di carte…» stava dicendo il
Giudice che il brigadiere Tancredi, precipitandosi nell’ufficio annunciò:
«Signor Giudice, Maresciallo, le auto appostate attorno alla villa ricevono
chiaro e forte il segnale dall’interno della casa. Stiamo già registrando ogni
cosa che si dicono…».
«Oh, lo
vede Maresciallo, che le dicevo? Non resta che aspettare, solo aspettare!...».
L'indomani, nel tardo pomeriggio, il carabiniere Marini di turno all'ascolto, sentì squillare il telefono della villa, riconoscendo nell'uomo che rispondeva la voce di Bonocore. "Pronto, chi parla? [...] Dì, che vaje truvànne a quest'òre [...] Francì, tu e l'ate sìte 'na cungrèghe de strùnze, iije l'agghije capìte a che jùche stìte jucànne [...] no, senti a me, e deccìlle a tùtte i cumpàgne tuje: Giggìne non è fesso, adda ancòre nàsce chi 'u frèghe [...] vuje, approfittando che a quella zoccola 'i piàce aprì 'i còsce, mi volete dare in bocca ai cani, ai carabinieri [...] no, Francì, quìste so' chiacchiere, senti a me, l'ingegnere 'u sàcce che l'avìte accìse vuje con l'intenzione de jettà addosso a me la croce [...] Vi avviso, se è la guerra ca vulìte, pronti, io sono qua [...] Francì, me vulìte accìde? Non mi fate paura [...] Vabbùne, alla fine vedìme chi conta più morti. Deccìlle a tùtte quànde!"
Quando Bonocore terminò di parlare Marini, togliendosi la cuffia, disse in tono eccitato al collega seduto accanto a lui: «Madonna Marco, non so con chi stesse parlando al telefono il boss, ma è una bomba quello che ho registrato. Devo subito andare con la bobina dal Maresciallo. Mi sa che adesso ci toccherà pure proteggerlo, Giggìne còre ‘e càne...».
L'indomani, nel tardo pomeriggio, il carabiniere Marini di turno all'ascolto, sentì squillare il telefono della villa, riconoscendo nell'uomo che rispondeva la voce di Bonocore. "Pronto, chi parla? [...] Dì, che vaje truvànne a quest'òre [...] Francì, tu e l'ate sìte 'na cungrèghe de strùnze, iije l'agghije capìte a che jùche stìte jucànne [...] no, senti a me, e deccìlle a tùtte i cumpàgne tuje: Giggìne non è fesso, adda ancòre nàsce chi 'u frèghe [...] vuje, approfittando che a quella zoccola 'i piàce aprì 'i còsce, mi volete dare in bocca ai cani, ai carabinieri [...] no, Francì, quìste so' chiacchiere, senti a me, l'ingegnere 'u sàcce che l'avìte accìse vuje con l'intenzione de jettà addosso a me la croce [...] Vi avviso, se è la guerra ca vulìte, pronti, io sono qua [...] Francì, me vulìte accìde? Non mi fate paura [...] Vabbùne, alla fine vedìme chi conta più morti. Deccìlle a tùtte quànde!"
Quando Bonocore terminò di parlare Marini, togliendosi la cuffia, disse in tono eccitato al collega seduto accanto a lui: «Madonna Marco, non so con chi stesse parlando al telefono il boss, ma è una bomba quello che ho registrato. Devo subito andare con la bobina dal Maresciallo. Mi sa che adesso ci toccherà pure proteggerlo, Giggìne còre ‘e càne...».
Vladimiro Forlese, 2014
Iscriviti a:
Post (Atom)