quarto stato

mercoledì 23 maggio 2012

Bombe, stragi e verità

Capaci e via D'Amelio vent'anni dopo


Falcone e Borsellino, così la retorica di Stato uccide verità e memoria


[Vi riporto parte della prefazione di Roberto Scarpinato,  procuratore generale di Caltanissetta, a "Le ultime parole di Falcone e Borsellino" (a cura di Antonella Mascali, Chiarelettere). In questo libro gli interventi, le interviste, le parole di Giovanni Falcone (1939--1992) e Paolo Borsellino (1940--1992) a vent’anni dalla loro morte.]


di Roberto Scarpinato

Più trascorrono gli anni e più cresce la mia sensazione di disagio nel partecipare il 23 maggio e il 19 luglio alle pubbliche cerimonie commemorative delle stragi di Capaci e di via D’Amelio.

La retorica di Stato ha i suoi rigidi protocolli ed esige che il discorso pubblico venga epurato da ogni sconveniente riferimento alle travagliate vicende che segnarono le vite di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, preparandone lentamente la morte.
Relegando nel fuori scena della storia quelle vicende, questa forma di autocensura consegna così alla memoria collettiva una narrazione tragica e, nello stesso tempo, semplice e pacificata, che si può riassumere nei seguenti termini: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono assassinati perché con il loro lavoro di integerrimi magistrati, culminato nelle condanne inflitte con il maxiprocesso, erano il simbolo di uno Stato che aveva sferrato un colpo mortale a Cosa nostra, mandando in frantumi il mito della sua invincibilità. I carnefici, i portatori del male di mafia, sono stati identificati e condannati. Hanno i volti noti di coloro che l’immaginario collettivo ha già elevato a icone assolute e totalizzanti della mafia: Totò Riina, Bernardo Provenzano e altri personaggi di tal fatta; per lo più ex villici che si esprimono in un italiano maldigerito, i cui tratti fisiognomici, duri e sprezzanti, quasi appaiono lombrosianamente rivelatori della loro intima natura crudele.

Secondo questa rappresentazione, la mafia è costituita da una minoranza di criminali che, come si usa ripetere, costituisce una sorta di fungo malefico, di tumore all’interno di una società costituita da un’assoluta maggioranza di onesti: una netta linea di confine separa la città dell’ombra, abitata dai portatori del male di mafia, dalla città della luce, popolata dagli innocenti.
Il male, dunque, è fuori di noi e può essere catarticamente proiettato sul monstrum (colui che viene messo in mostra).
A volte qualcuno tra gli oratori si spinge ai limiti dell’arditezza, alludendo anche alla corresponsabilità di colletti bianchi che si muovono ambiguamente lungo quella linea di confine. E, tuttavia, quasi a voler rassicurare se stesso oltre che l’uditorio, l’oratore provvede subitaneamente a ridimensionare quest’ardita digressione – che rischierebbe di incrinare le serene certezze di tanti – specificando che nella maggior parte dei casi si tratta di «semplice» responsabilità morale e, per il residuo, di singole mele marce nel paniere delle mele buone. Del resto, in quale buona famiglia non esiste qualche pecora nera?
Fine della cerimonia e saluti delle autorità, tra le quali purtroppo siedono, talora in prima fila, anche personaggi dai dubbi trascorsi, ai quali si è costretti a stringere la mano per dovere di ruolo.
Si ritorna quindi a casa e coloro che, come me e pochi altri, hanno vissuto queste vicende in prima persona, portandone dentro segni indelebili, vengono colti da un senso di spaesamento per l’impossibilità di riconoscersi in una simile narrazione degli eventi.

Il peso del rimosso, della parte della storia relegata nel fuori scena, è infatti tale da stravolgerne completamente la chiave di lettura e il senso globale.
La realtà che abbiamo vissuto e sofferto con Giovanni e Paolo racconta che, diversamente da quanto si ripete nelle cerimonie ufficiali, il male di mafia non è affatto solo fuori di noi, è anche «tra noi».
Racconta che gli assassini e i loro complici non hanno solo i volti truci e crudeli di coloro che sulla scena dei delitti si sono sporcati le mani di sangue, ma anche i volti di tanti, di troppi sepolcri imbiancati. Un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole e che affollano i migliori salotti: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei servizi segreti e della polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi apicali dell’economia e della finanza e molti altri. Tutte responsabilità penali certificate da sentenze definitive, costate lacrime e sangue, e tuttavia rimosse da una retorica pubblica e da un sistema dei media che, tranne poche eccezioni, illuminano a viva luce solo la faccia del pianeta mafioso abitata dalla mafia popolare, quella del racket e degli stupefacenti, elevando una parte a simbolo del tutto.


Mediante tale selettività a senso unico dei materiali utilizzati per la costruzione del sapere sociale sulla mafia, si pone così in essere un riduzionismo della storia globale che realizza una sorta di amnistia permanente della memoria per amnesia collettiva.
In realtà il gorgo che ha inghiottito migliaia di vite chiama in causa quello che lucidamente Giovanni Falcone definiva «il gioco grande» del potere, di cui il sistema mafioso sin dall’Unità d’Italia è sempre stato importante coprotagonista, come dimostrano la lezione della storia, gli esiti di tanti processi, e come confermano, da ultimo, anche le indagini sulle stragi del 1992.
Indagini segnate da inquietanti depistaggi (falsi collaboratori introdotti nel processo per la strage di via D’Amelio), dalla sparizione di documenti cruciali (l’agenda rossa di Paolo Borsellino e, prima ancora, i documenti custoditi nell’abitazione di Salvatore Riina). Indagini che, come quella sulla trattativa tra alcuni esponenti dello Stato e la mafia per porre fine alle stragi, hanno anche innescato una sorta di triste sagra di Stato degli smemorati di Collegno, intessuta di tanti «non ricordo», di reciproche smentite, di rivelazioni parziali. Frammenti di verità che emergono solo a distanza di decenni dagli eventi, dopo essere stati estratti con il forcipe delle indagini penali a imbarazzati e riottosi custodi di segreti consumatisi in quel fuori scena della storia da sempre bandito dalle cerimonie ufficiali.

La delegittimazione di Falcone e Borsellino

Questo libro raccoglie alcuni degli scritti e degli interventi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma il lettore immemore delle vicende di quegli anni difficilmente potrebbe intravedere attraverso il prisma delle loro parole, sofferte ma sempre doverosamente misurate, il vero volto dell’immane sistema di potere con il quale essi dovettero misurarsi, rischiando sempre di soccombere.
La vera chiave di lettura dei testi sta nel fuori testo, nel non detto e nel non dicibile.

Giovanni e Paolo dovevano fare un attento governo delle parole nella comunicazione pubblica, non solo per il senso di responsabilità proprio dei delicati ruoli istituzionali ricoperti, ma anche per la consapevolezza che le loro parole potevano essere strumentalizzate e ritorte contro di loro da un variegato mondo di potenti che li viveva come variabili indipendenti dagli equilibri esistenti e, dunque, pericolosamente incontrollabili. Quel mondo che li lavorava ai fianchi tentando di isolarli all’interno dei loro stessi uffici con occulte manovre di potere, che incessantemente rovesciava loro addosso un impressionante volume di fuoco di parole per delegittimarli e neutralizzarli, li attendeva proprio al varco delle loro parole di risposta, per isolarli e travolgerli definitivamente.

Ne fece diretta esperienza Paolo Borsellino quando, in due interviste rilasciate nel luglio 1988 ai giornalisti Attilio Bolzoni e Saverio Lodato, lanciò in campo nazionale l’allarme sulla silenziosa opera di smobilitazione del pool antimafia posta in essere dal consigliere Antonino Meli, nuovo capo dell’Ufficio istruzione che aveva preso il posto di Antonino Caponnetto e che era stato preferito dal Consiglio superiore della magistratura a Giovanni Falcone, da tutti ritenuto invece il suo successore naturale:

Vogliono smantellare il pool antimafia. Fino a poco tempo fa tutte le indagini antimafia, proprio per l’unitarietà dell’organizzazione chiamata Cosa nostra, venivano fortemente centralizzate nel pool della Procura e dell’Ufficio istruzione. Oggi invece i processi vengono dispersi in mille rivoli. Tutti si devono occupare di tutto, è questa la spiegazione ufficiale, ma è una spiegazione che non convince. La verità è che Giovanni Falcone purtroppo non è più il punto di riferimento principale [...] Le indagini si disperdono in mille canali e intanto Cosa nostra si è riorganizzata, come prima e più di prima.

Una rigorosa ispezione ministeriale disposta dal ministro della Giustizia Giuliano Vassalli avrebbe accertato poco tempo dopo che i fatti denunciati da Paolo Borsellino rispondevano a verità. Eppure Paolo per quell’intervista fu trascinato dinanzi al Consiglio superiore della magistratura rischiando il procedimento disciplinare, da cui scampò solo perché Giovanni Falcone venne in suo soccorso, comunicando il 30 luglio la sua richiesta di essere trasferito ad altro ufficio con parole che nel loro rompere gli argini denunciavano che la sconfitta del pool si era ormai consumata:

Ho tollerato in silenzio in questi ultimi anni in cui mi sono occupato di istruttorie sulla criminalità mafiosa le inevitabili accuse di protagonismo o di scorrettezze nel mio lavoro. Ritenendo di compiere un servizio utile alla società, ero pago del dovere compiuto e consapevole che si trattava di uno dei tanti inconvenienti connessi alle funzioni affidatemi. Ero inoltre sicuro che la pubblicità dei relativi dibattimenti avrebbe dimostrato, come in effetti è avvenuto, che le istruttorie cui io ho collaborato erano state condotte nel più assoluto rispetto della legalità. Quando poi si è prospettato il problema della sostituzione del consigliere istruttore di Palermo, dottor Caponnetto, ho avanzato la mia candidatura, ritenendo che questa fosse l’unica maniera per evitare la dispersione di un patrimonio prezioso di conoscenze e di professionalità che l’ufficio a cui appartengo aveva globalmente acquisito. Forse peccavo di presunzione e forse altri potevano assolvere egregiamente all’esigenza di assicurare la continuità dell’ufficio. È certo però che esulava completamente dalla mia mente l’idea di chiedere premi o riconoscimenti di alcun genere per lo svolgimento della mia attività.

Il ben noto esito di questa vicenda non mi riguarda sotto l’aspetto personale e non ha per nulla influito, come i fatti hanno dimostrato, sul mio impegno professionale.
Anche in quella occasione però ho dovuto registrare infami calunnie e una campagna denigratoria di inaudita bassezza cui non ho reagito solo perché ritenevo, forse a torto, che il mio ruolo mi imponesse il silenzio. Ma adesso la situazione è profondamente cambiata e il mio riserbo non ha più ragione di essere.


Quello che paventavo è purtroppo avvenuto: le istruttorie nei processi di mafia si sono inceppate e quel delicatissimo congegno che è costituito dal gruppo cosiddetto antimafia dell’Ufficio istruzione di Palermo, per cause che in questa sede non intendo analizzare, è ormai in stato di stallo. Paolo Borsellino, della cui amicizia mi onoro, ha dimostrato ancora una volta il suo senso dello Stato e il suo coraggio denunciando pubblicamente omissioni e inerzie nella repressione del fenomeno mafioso che sono sotto gli occhi di tutti.

Come risposta è stata innescata un’indegna manovra per tentare di stravolgere il profondo valore morale del suo gesto, riducendo tutto a una bega tra «cordate» di magistrati, a una «reazione», cioè, tra magistrati «protagonisti», «oscurati» da altri magistrati che, con diversa serietà professionale e con maggiore incisività, condurrebbero le indagini in tema di mafia.
Tuttavia, essendo prevedibile che mi saranno chiesti chiarimenti sulle questioni poste sul tappeto dal procuratore di Marsala, ritengo di non poterlo fare se non a condizione che non vi sia nemmeno il sospetto di tentativi da parte mia di sostenere pretese situazioni di privilegio (ciò, inevitabilmente, si dice adesso a proposito dei titolari di indagini in tema di mafia). E allora, dopo lunga riflessione, mi sono reso conto che l’unica via praticabile a tal fine è quella di cambiare immediatamente ufficio. E questa scelta, a mio avviso, è resa ancora più opportuna dal fatto che i miei convincimenti sui criteri di gestione delle istruttorie divergono radicalmente da quelle del consigliere istruttore divenuto titolare, per sua precisa scelta, di tutte le istruttorie in tema di mafia.


Mi rivolgo pertanto alla sensibilità del presidente del Tribunale affinché, nel modo che riterrà più opportuno, mi assegni ad altro ufficio nel più breve tempo possibile; per intanto chiedo di poter iniziare a usufruire delle ferie con decorrenza immediata. Prego vivamente, inoltre, l’onorevole Consiglio superiore della magistratura di voler rinviare la mia eventuale audizione a epoca successiva alla mia assegnazione ad altro ufficio.
Mi auguro che queste mie istanze, profondamente sentite, non vengano interpretate come un gesto di iattanza, ma per quello che riflettono: il profondo disagio di chi è costretto a svolgere un lavoro delicato in condizioni tanto sfavorevoli e l’esigenza di poter esprimere compiutamente il proprio
pensiero senza condizionamenti di sorta.


Le dimissioni di Falcone furono respinte, l’allarme di Borsellino venne ignorato, il pool antimafia venne smobilitato e le inchieste su Cosa nostra, prima centralizzate nell’Ufficio istruzione, furono disseminate in una molteplicità di uffici giudiziari siciliani, determinando così l’esito infausto di molte indagini.
A rileggerla a distanza di quasi un quarto di secolo, tutta questa vicenda ha quasi dell’incredibile. Borsellino e Falcone, artefici della straordinaria riscossa dello Stato contro la mafia grazie al nuovo metodo di indagine inaugurato con Antonino Caponnetto, sollevano un problema reale e drammatico. Il Csm, invece di prestare loro attento ascolto, mette sotto inchiesta Borsellino e alla fine assiste con vigile indifferenza al compimento della smobilitazione del pool e all’arretramento dell’impegno dello Stato in una fase cruciale.

La chiave di comprensione di questa e di altre complesse vicende – come quella che in precedenza, grazie a una accorta regia, aveva impedito che Falcone venisse nominato capo dell’Ufficio istruzione di Palermo – non si trova all’interno della «città dell’ombra» abitata dai semianalfabeti Riina e Provenzano, ma nei recessi della «città della luce» popolata dagli onesti nonché da una folla di piccoli e grandi Don Rodrigo, senza i quali quelli come Riina, eredi dei «bravi» di manzoniana memoria, sarebbero stati archiviati da tempo come relitti di un passato premoderno o si sarebbero acconciati a pagare in silenzio il prezzo della galera per i loro crimini, senza poter contare su protezioni eccellenti e senza mai osare sfidare lo Stato.

Il pool antimafia viene in realtà smobilitato perché era divenuto il terreno di manovra di un war game in cui la vera posta in gioco era la sopravvivenza stessa del sistema di potere siciliano, una delle architravi portanti di quello nazionale.
Per tentare di comprendere nel breve spazio di una prefazione come e perché ciò fosse avvenuto bisogna riavvolgere velocemente all’indietro il nastro della memoria fermandolo a qualche anno prima che iniziasse l’avventura del pool antimafia.

Gli anni Ottanta e il sacrificio di Costa e Chinnici

È l’agosto del 1980. In una chiesa di Palermo si celebrano i funerali di Gaetano Costa, procuratore della Repubblica di Palermo assassinato a colpi di pistola il giorno 6 di quel mese dai killer della mafia. Ad assistere al rito funebre sono presenti solo parenti, amici e le autorità. È assente l’establishment di Palermo, quel gotha di politici, imprenditori, finanzieri che signoreggia sulla Sicilia e che non fa mai mancare la propria presenza ai funerali dei potenti. Assenza significativa ove si tenga conto che il procuratore della Repubblica di Palermo è sempre stato considerato uno degli uomini più potenti della città e del paese. Mancano molti, troppi magistrati del Palazzo di giustizia.

Manca, soprattutto, la gente comune, quella folla sterminata di persone che nel 1992, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, riempirà le chiese, le piazze e le vie della città.
Cosa significa quell’assenza, segno tangibile di una solitudine tanto più rimarchevole ove si consideri la statura dell’uomo di Stato di cui si celebrano le esequie: ex partigiano e magistrato integerrimo, precursore, già quando in precedenza aveva ricoperto l’incarico di procuratore di Caltanissetta, delle prime indagini bancarie sul riciclaggio mafioso?
È la stessa solitudine, consegnata solo al segreto dei propri diari o a pochi intimi, che avrebbe attanagliato anche Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, assassinato con un’autobomba il 29 luglio 1983, Carlo Alberto dalla Chiesa, prefetto di Palermo, assassinato il 3 settembre 1982, e altri uomini accomunati dall’essere avanguardie isolate di un’antimafia che stava iniziando la sua travagliata e sanguinosa marcia, facendosi strada tra l’indifferenza popolare e l’occhiuta insofferenza dei potenti.

È la stessa solitudine che faceva dire in quegli anni a Falcone che talora gli sembrava che la gente assistesse alla lotta contro la mafia come il pubblico che sugli spalti assiste a una corrida. Taluni tifavano per il torero, altri per il toro, ma tutti erano comunque spettatori passivi di uno spettacolo gladiatorio il cui epilogo, la morte violenta, emozionava per un attimo per poi dileguarsi nell’oblio.
Negli scritti raccolti in questo volume si trovano alcuni passaggi che rievocano quel clima e che indicano alcune possibili spiegazioni dell’indifferenza della società civile.
Una motivazione andava certamente ricercata nella generalizzata ignoranza della realtà della mafia di cui per decenni si era voluta pervicacemente negare l’esistenza, riducendola a semplice fenomeno di costume, a invenzione dei comunisti per screditare il buon nome dell’isola o a semplice criminalità comune, nonostante l’inesauribile stillicidio di omicidi e di stragi che sin dall’Unità d’Italia aveva lasciato sul terreno centinaia di vittime.

A questo riguardo, nello scritto La mafia come Antistato, Falcone afferma:

Mi sembra di rileggere un copione già scritto perché tante altre volte sono stati assunti questi atteggiamenti e tante altre volte sono stati contestati, in quanto espressione della sostanziale indifferenza della società italiana rispetto al problema, o peggio, della assuefazione rispetto al triste rito delle morti che scandisce le dinamiche mafiose. [...] Debbo purtroppo registrare che questi problemi suscitano l’attenzione dell’opinione pubblica solo in presenza di fatti eclatanti e, malgrado l’importanza del fenomeno, non trovano approfondimento scientifico se non da parte di studiosi stranieri, tranne qualche lodevole eccezione; [...] Mi ha stupito sentir dire da un noto sociologo che la cosiddetta organizzazione mafiosa è un’accozzaglia di bande in perenne lotta l’una contro l’altra e che se i mafiosi si ammazzano tra loro non è un grosso problema. Se così si ritiene dagli studiosi del fenomeno non ci si può meravigliare se in certe sentenze si sostiene qualcosa di analogo che sicuramente non risponde alla realtà criminale.
Sul punto ritorna anche nello scritto La mafia non è invincibile:

Anche fra i rappresentanti della legge c’era chi dubitava perfino dell’esistenza della mafia come organizzazione criminale. Ricordo la domanda che mi rivolse un collega dell’Ufficio istruzione, con un’esperienza pluriennale: «Ma tu credi veramente che esista la mafia?». [...] Era il periodo in cui nei quotidiani locali si aveva ritegno a nominare la mafia, tanto che gli omicidi mafiosi venivano quasi sempre etichettati come opera di una «bieca mano assassina» e in cui le indagini [...] erano ormai avviate verso il totale insuccesso. [...] Il disinteresse dello Stato nei confronti della mafia era pressoché totale [...]. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se i fenomeni criminali della mafia, della camorra, della ’ndrangheta venivano vissuti dall’opinione pubblica nazionale in maniera disattenta e svogliata [...].

A proposito della manipolazione mistificatoria che ha sempre contrassegnato la costruzione sociale del sapere sulla mafia – prima negata sic et simpliciter, poi ridotta ad «accozzaglia di bande in perenne lotta l’una contro l’altra» e, infine, a storia di bassa macelleria criminale di cui sarebbero protagonisti solo personaggi come Riina e Provenzano – va ricordato come ancora nel 1982 il sindaco di Palermo Nello Martellucci, esponente di punta della corrente andreottiana, si fosse opposto pubblicamente alla concessione di poteri speciali al prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa per coordinare la lotta alla mafia, dichiarando che la mafia lui non l’aveva mai vista e che quella di Palermo era solo criminalità comune, come ve ne era in tutto il paese. E ciò, si badi bene, avveniva dopo l’impressionante catena di omicidi mafiosi che aveva lasciato sul terreno Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia cristiana (9 marzo 1979), Boris Giuliano, capo della Squadra mobile di Palermo (21 luglio 1979), Cesare Terranova, già capo dell’Ufficio istruzione di Palermo (25 settembre 1979), Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana (6 gennaio 1980), Emanuele Basile, capitano dei carabinieri (4 maggio 1980), Gaetano Costa, procuratore della Repubblica di Palermo (6 agosto 1980), Pio La Torre, segretario regionale del Pci (30 aprile 1982).

Ma a parte l’ignoranza, in buona misura indotta, vi era un’altra ragione ancora più profonda che alimentava l’indifferenza della società civile: la gente non riusciva a identificarsi nello Stato.
Questo è uno dei leitmotiv che attraversa dolosamente le riflessioni che Borsellino affida ai suoi scritti e ai suoi interventi.
Così in Una lezione su mafia e legalità, un discorso tenuto agli studenti di Bassano del Grappa il 26 gennaio 1989, affermava:

[...] il cittadino del Meridione si è sentito lontano, si è sentito estraneo allo Stato. [...] lo Stato non si presenta con la faccia pulita [...]. Che cosa si è fatto per dare allo Stato, in queste regioni e comunque dappertutto in Italia, un’immagine credibile? [...] la vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni.

A uno studente che gli chiedeva se si sentisse protetto dallo Stato e se avesse fiducia nello Stato, risponde:

Io non mi sento protetto dallo Stato perché oggi la lotta alla criminalità mafiosa viene sostanzialmente delegata soltanto alla magistratura e alle forze dell’ordine. [...] non si incide sulle cause a fondo di questo particolare fenomeno criminale.

Spiega quindi come questa delega – tra l’altro compromessa da mille difficoltà frapposte a magistrati e poliziotti ai quali venivano fatte mancare risorse e solidarietà – determinasse la loro sostanziale sovraesposizione, rendendoli quasi vittime sacrificali. A questo proposito cita, tra gli altri, l’esempio di Gaetano Costa e di Rocco Chinnici, ricordando come
«coloro che cominciarono a interessarsi di questi problemi non è che raccolsero grossa solidarietà all’interno del Palazzo di giustizia».

Lo Stato non è credibile

Riprendendo il filo di queste riflessioni e attingendo all’inesauribile riserva di fatti confinati nella sfera del fuori scena, sebbene accertati con sentenze definitive, si può aggiungere che la gente non riusciva a identificarsi con istituzioni che non apparivano credibili perché si manifestavano con i volti impresentabili di personaggi come Salvo Lima e Vito Ciancimino, uomini simbolo di una sterminata fauna politica che annoverava migliaia di esponenti, maschere e replica seriale di un potere corrotto, in larga misura connivente o «convivente» con la mafia e interessato solo alla propria autoriproduzione.
Lo Stato non appariva credibile neanche a Roma, dove uno di coloro che nell’immaginario collettivo ne costituiva quasi la personificazione, Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio, ventidue volte ministro, vertice nazionale di una corrente il cui plenipotenziario in Sicilia era proprio Salvo Lima (per questo motivo definito «il viceré»), aveva allora rapporti organici con la mafia, come è stato definitivamente accertato con sentenza della Corte di appello di Palermo del 2 maggio 2003, confermata in Cassazione il 15 ottobre 2004, nella cui motivazione si legge tra l’altro:

E i fatti che la Corte ha ritenuto provati dicono che il senatore Andreotti ha avuto piena consapevolezza che suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha, quindi, a sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi; ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, a ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio del presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati; ha omesso di denunciare le loro responsabilità, in particolare in relazione all’omicidio del presidente Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di conoscenza.

Come la Corte ha ritenuto provato in altre pagine della motivazione, proprio nello stesso anno in cui era stato assassinato Gaetano Costa, Giulio Andreotti era volato segretamente in Sicilia per partecipare a un summit mafioso che aveva come oggetto un affare scottante: l’omicidio di Piersanti Mattarella, anomalo presidente democristiano della Regione siciliana, assassinato perché aveva osato mettere in pericolo gli interessi economici del sistema di potere mafioso, promuovendo un’incisiva azione di moralizzazione della politica regionale.
Presenti a quella riunione erano alcuni dei più importanti capi della mafia militare che aveva eseguito l’omicidio, Salvo Lima e i potentissimi cugini Nino e Ignazio Salvo, esponenti apicali della borghesia mafiosa a capo di una holding imprenditoriale tra le più rilevanti del Meridione.

Ma non basta. Lo Stato non era credibile anche perché prefetti, questori e alti magistrati partecipavano alle feste, alle cerimonie di inaugurazione di nuove imprese, alle battute di caccia di personaggi che tutti sapevano essere mafiosi: come Benedetto Santapaola, capo della mafia corleonese a Catania, più volte fotografato sorridente insieme al prefetto e ad altre autorità.
Come Michele Greco, capo della Commissione, organo di vertice di Cosa nostra, il quale, a guisa di criptico messaggio, prima di iniziare un interrogatorio, ricordò a Giovanni Falcone che aveva avuto il piacere di ospitare nella sua tenuta tanti alti magistrati.
Come i predetti cugini Salvo, le cui feste, documentate dalle foto del tempo, erano affollate da rappresentanti di uno Stato che, anche per questo motivo, appariva non credibile.
Ma non basta ancora.

Lo Stato non era credibile neppure in quella articolazione dalla quale sarebbe partita la sua riscossa: la magistratura. E qui conviene ricordare le parole con le quali Giovanni Falcone, nel difendersi dall’accusa di essere un «giudice sceriffo» perché cercava attivamente le prove invece di limitarsi a vagliare quelle raccolte dalle forze di polizia, tratteggia nello scritto Emergenza e Stato di diritto il ritratto della magistratura di quegli anni, ristagnante in una tranquilla routine burocratica mentre venivano falcidiati uno dopo l’altro in tragica successione temporale alcuni tra i più importanti vertici delle istituzioni:

Qualcuno, forse, potrà rimpiangere i «bei tempi andati» in cui il pubblico ministero si limitava a dare una prima scrematura degli elementi di prova forniti dalla polizia giudiziaria, e il giudice istruttore soleva compiere un’ulteriore verifica delle prove, spesso con effetto di ulteriore ridimensionamento dei rapporti di denunzia. E io ricordo ancora quell’alto magistrato che mi diceva che il giudice istruttore non ha mai scoperto niente e occorre lasciare che la polizia svolga tranquillamente le indagini. Ciò del resto – per fortuna in settori sempre meno estesi – è talora l’atteggiamento di alcuni ufficiali di polizia giudiziaria, che mal sopportano e ritengono essere una indebita ingerenza il diretto coordinamento delle indagini da parte del magistrato istruttore. In realtà, bisogna che tutti si rendano conto che il modello di magistrato inerte e privo di spirito di iniziativa, se poteva essere rispondente alle esigenze di un determinato periodo storico e funzionale a un determinato equilibrio socio-politico, non è mai stato fondato su un uso legittimo dei poteri istituzionali.

I «bei tempi andati», espressione di quell’equilibrio sociopolitico al quale Falcone accenna, erano anche quelli nei quali, alcuni anni prima, il procuratore generale presso la Suprema corte di cassazione – il magistrato più alto in grado di tutta la magistratura inquirente – si era complimentato pubblicamente con Genco Russo, divenuto capo della mafia siciliana dopo la morte del suo predecessore, Don Calogero Vizzini, scrivendo su una rivista giuridica:

Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nelle persecuzioni ai banditi e ai fuorilegge... ha affiancato addirittura le forze dell’ordine [...] Oggi si fa il nome di un autorevole successore nella carica tenuta da Don Calogero Vizzini in seno alla consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto alle leggi dello Stato e del miglioramento sociale della collettività.

Nel Palazzo di giustizia, c’era qualcosa di ancora più inquietante dei ritardi culturali e delle passività burocratiche: qualcosa con cui Falcone e Borsellino avrebbero dovuto misurarsi negli anni seguenti, risultando alla fine perdenti.
A quel qualcosa di inquietante aveva osato fare riferimento proprio Gaetano Costa, l’uomo lasciato solo a morire dopo essere stato vissuto come un corpo estraneo, quando il 10 luglio 1978, insediatosi nel suo nuovo ufficio di procuratore capo a Palermo, aveva dichiarato: «Non accetterò spinte o pressioni, agirò con spirito di indipendenza». Frase che aveva suscitato scandalizzati commenti negativi e che lo aveva connotato da subito come un non allineato, destinato a essere isolato, perché equivaleva a dire: «So bene che in questo palazzo vi sono magistrati che subiscono spinte e pressioni. Ma vi avverto, non provateci con me, perché sono di un’altra razza».

Veleni al Palazzo di giustizia di Palermo

Ma quali erano le pressioni alle quali faceva riferimento Gaetano Costa di cui non vi era traccia nei documenti pubblici e alle quali nessuno aveva mai osato fare aperto riferimento?
Erano, ad esempio, quelle ripetutamente e invano esercitate su Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, altro magistrato non allineato: colui che aveva il merito di avere reclutato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel suo Ufficio e che gettò i primi semi della nascita della straordinaria stagione dell’antimafia palermitana decollata negli anni successivi.

A testimonianza del clima di assedio vissuto in quegli anni da Costa e Chinnici in quel Palazzo di giustizia dove i giovani Falcone e Borsellino iniziavano a lavorare, va ricordato che i due, quando dovevano parlare di argomenti delicati, si vedevano costretti, per sottrarsi all’ascolto di orecchie indiscrete, a rinchiudersi nell’ascensore riservato di servizio, facendo su e giù per i piani per tutto il tempo necessario.
Nessuno sa cosa si siano detti. Si può ipotizzare che Chinnici abbia confidato a Costa anche qualcuno degli episodi di «spinte e pressioni» esercitate in quel Palazzo per pilotare l’esito di indagini che coinvolgevano i potenti. Episodi che egli ebbe cura di annotare in un diario, ritrovato dopo il suo tragico assassinio e di cui vale la pena di ricordare alcuni frammenti:
Così, alla pagina del 18 settembre 1980, Chinnici scrive:

Il procuratore generale [...] mi raccomanda caldamente il proc. contro Cuccio Giuseppe imputato di frode valutaria. Lo stesso mi ha raccomandato il processo contro il di lui genero imputato di falsità in titolo di credito.

Alla pagina del 14 luglio 1981 si legge:

ore 13. G. Falcone mi comunica che il Primo Presidente della Corte gli ha caldamente raccomandato il cavaliere del lavoro Graci implicato nella faccenda Sindona; dopo averlo convocato nel suo ufficio.

Di episodi simili Chinnici ne annota diversi, ma ve ne è uno particolarmente emblematico. Si tratta di un incontro avvenuto il 18 maggio 1982 con il presidente della Corte di appello, di cui Chinnici fa un analitico resoconto:

ore 12 – [Il Presidente] Mi investe in malo modo dicendomi che all’ufficio istruzione stiamo rovinando l’economia palermitana disponendo indagini e accertamenti a mezzo della guardia di finanza. Mi dice chiaramente che devo caricare di processi semplici Falcone in maniera che «cerchi di scoprire nulla perché i giudici istruttori non hanno mai scoperto nulla». [...] Cerca di dominare la sua ira ma non ci riesce. Mi dice che verrà a ispezionare l’ufficio (e io lo invito a farlo); è indignato perché [non è stata archiviata] la sporca faccenda dei contributi (miliardi per la elettrificazione delle loro aziende agricole); l’uomo che a Palermo non ha mai fatto nulla per colpire la mafia [...] non sa più nascondere le sue reazioni e il suo vero volto. Mi dice che la dobbiamo finire, che non dobbiamo più disporre accertamenti nelle banche.

Quante volte sarà accaduto che nel segreto di quelle stanze siano state esercitate pressioni su magistrati? E quante volte sarà accaduto che schiene meno dritte di quelle di Chinnici e Costa si siano piegate, per timore reverenziale, per quieto vivere, per umana debolezza?

Come vedremo più avanti, anche Falcone alla fine degli anni Ottanta annoterà nel suo diario episodi simili da lui constatati alla Procura della Repubblica di Palermo, dove sarebbe divenuto procuratore aggiunto, a testimonianza della persistenza nel tempo di un fuori scena che costituisce il pezzo mancante e insieme una imprescindibile chiave di lettura per comprendere perché l’avvento di magistrati come Costa, Chinnici, Falcone, Borsellino avesse determinato l’apertura di una interna linea di frattura tra due diverse anime della magistratura. L’una che viveva se stessa e il Palazzo di giustizia come componente organica del «Palazzo» di pasoliniana memoria, attenta dunque a esercitare una giurisdizione che si faceva carico delle compatibilità generali di sistema all’insegna del motto aureo del quieta non movere et mota quietare. L’altra che voleva invece inverare nella prassi quotidiana il principio costituzionale dell’indipendenza e dell’autonomia dell’Ordine giudiziario dal «Palazzo», premessa indispensabile per realizzare il valore dell’uguaglianza di tutti i cittadini – potenti e impotenti – dinanzi alla legge, sancito dall’articolo 3 della Costituzione: vera e propria rivoluzione democratica in un paese come l’Italia dove per troppo secoli – come aveva scritto Gaetano Salvemini – la legge non era stata ritenuta rispettabile perché vissuta come la «voce del padrone» e l’incarnazione di uno Stato forte con i deboli e debole con i forti.

Poiché le pressioni interne al Palazzo di giustizia per non svolgere più indagini sui rapporti mafia-economia che coinvolgevano i potenti del tempo si erano rivelate inefficaci, Chinnici riceve un altro avvertimento. Ne riferisce Paolo Borsellino in una testimonianza resa il 4 agosto 1983 nel processo per l’omicidio di Chinnici: dopo che l’Ufficio istruzione aveva emesso un mandato di cattura contro il cavaliere del lavoro Costanzo, imprenditore catanese ritenuto contiguo alla mafia, e contro Di Fresco, uomo politico democristiano, Chinnici era stato sollecitato da un senatore, ex magistrato, a recarsi nella sua abitazione di Palermo. Qui aveva incontrato l’onorevole Lima – vertice del potere politico mafioso in Sicilia – il quale gli aveva fatto presente che le iniziative giudiziarie del suo ufficio venivano considerate una forma di persecuzione politica per la Dc.

Il 29 luglio 1983 il testardo e non allineato Chinnici viene massacrato sotto casa insieme agli agenti della sua scorta con un’auto bomba imbottita di tritolo.
A ucciderlo saranno gli uomini della mafia militare ma, come riferirà in udienza uno degli esecutori materiali, Giovanni Brusca, la richiesta di assassinarlo era venuta dal mondo dei colletti bianchi. A volerne la morte erano stati i potentissimi cugini Salvo, sui quali Chinnici si era ostinato a indagare sino alla fine.

Gli stessi cugini Salvo che avevano partecipato con Lima, Andreotti e i quadri militari della mafia al summit sull’omicidio di Piersanti Mattarella. Gli stessi cugini Salvo che ospitavano nelle loro feste tanti esponenti dello Stato. Gli stessi «intoccabili» il cui arresto a seguito del mandato di cattura emesso negli anni seguenti da Falcone e Borsellino segnerà l’inizio della fine del pool antimafia di Palermo.

(20 maggio 2012)

 

lunedì 21 maggio 2012

Terremoto

Quattro delle sette vittime sono operai, morti sotto le macerie delle loro fabbriche, a Sant'Agostino e Bondeno, nel Ferrarese, mentre stavano per terminare il turno del sabato notte.
Vite spezzate sotto le macerie di quelle fabbriche che sono l'anima e il cuore dell'economia emiliano-romagnola. Come la Ceramica Sant'Agostino in cui hanno perso la vita Leonardo
Ansaloni, 45 anni, e Nicola Cavicchi, di dieci anni più giovane. Vittima della sorte, quest'ultima: doveva andare al mare, ma poi le nuvole e la pioggia lo hanno convinto a sostituire un
collega malato. E poi ancora Gerardo Cesaro, 57 anni, morto alla Tecopress di Dosso, frazione di Sant'Agostino, una fonderia che produce a ciclo continuo, e Tarik Nauch, operaio
marocchino di 29 anni morto alla Ursa, azienda di polistirolo espanso a Bondeno, dove progettava di portare la moglie sposata da poco.



Poteva essere una strage di fedeli se la terra avesse tremato così solo qualche ora dopo. Ricca di chiese e di campanili in parte crollati, questa landa padana di confine fra Emilia, Lombardia e Veneto, così piatta da non scorgere all'orizzonte neppure una collina, ha scritto invece la pagina più nera degli operai della notte. Ben prima che sorgesse il sole Nicola Cavicchi, Leonardo Ansaloni, Gerardo Cesaro e Naouch Tarik erano tutti al lavoro, chi a scaricare lastre di alluminio, chi alle prese con i forni delle ceramiche, chi a controllare il polistirolo. Tutti turnisti dalle 20 alle 6 del mattino, sotto i rispettivi capannoni, così movimentati e assordanti da non accorgersi della prima scossa, quella dell'una di notte. «Non l'abbiamo sentita, c'era il rumore delle presse», ha detto Ghulam Murtaza, il miracolato della Tecopress. Tutti assunti, regolari, Ansaloni e Casaro con moglie e figli da mantenere, i più giovani Cavicchi e Tarik con il sogno della famiglia. «Nicola si era fatto un mutuo e una casa e voleva sposarsi, pensava a questo» ha detto suo fratello Cristiano. «Naouch stava aspettando il ricongiungimento con sua moglie Widad, risparmiava per questo», sospirava il papà del giovane marocchino. Per questo lavoravano anche di notte, anche il sabato notte. Eppure la domanda che molti si facevano domenica mattina davanti alle macerie era quella sospetta: come mai sotto i capannoni alle quattro del mattino? E come mai i tetti di quei capannoni, eretti nel 2010, crollano così, uccidendo coloro che ci lavoravano sotto? C'è chi dice che sono crollati perchè non avevano sostegni e Vasco Errani, presidente della Giunta Regionale, vuole capire bene cosa è successo. Anche il capo della protezione civile ha puntato il dito contro metodologie costruttive che pur nel rispetto delle norme antisismiche hanno prodotto il collasso delle strutture. Staremo a vedere, seguendo tutte le indagini che sicuramente i magistrati apriranno per accertare responsabilità all'indomani del sisma.

LE VITTIME

NAOUK —Si chiamava Naouch Tarik, aveva 29 anni ed era arrivato nel 1994 in Italia da Beni Mellal, Marocco, con papà Mustafà e mamma Fatiha. Operaio da sei anni della Ursa di Bondeno, una fabbrica di polistirolo, sabato notte non ce l’ha fatta a sfuggire al crollo. Dopo essere uscito perché tremava tutto, dice un suo collega, Naouch è tornato nel capannone a riprendere qualcosa o forse a chiudere il gas. «Sostituiva il capoturno, si sarà sentito responsabile. Mi hanno detto che gli è caduto addosso qualcosa », sussurra il padre con gli occhi lucidi, mentre poco più in là la madre urla di dolore e il fratello Hassan scuote la testa. E mentre lo dice la terra sussulta forte un’altra volta, alle 15 e 18, anche se lui non ci fa più molto caso: «Naouch era importante per me», ripete. Vivono in una grande casa immersa nelle campagne modenesi di Bevilacqua. Ci sono anche le due sorelle, un cognato e un’altra ventina di persone fra cui il console del Marocco a Bologna, Driss Rochdi. Il cognato alza un po’ i toni: «Voglio capire perché la struttura non ha retto». Il console usa la diplomazia: «Un grande dispiacere, confido nelle autorità italiane». Naouch, dicono tutti, era persona allegra e sportiva. Aveva chiesto da poco la cittadinanza italiana perché voleva portare a Bevilacqua Widad, la sua giovane moglie marocchina. Rimasta vedova a 18 anni.


GERARDO —Era l’uomo del muletto, l’operaio più esperto, 55 anni, una vita nella Tecopress di Dosso, fabbrica a ciclo continuo di lamierati per macchine. E lui, alle quattro del mattino si trovava al centro del capannone con il suo mezzo a caricare lastre di alluminio. L’ultima, drammatica corsa di Gerardo Cesaro di Molinella, sposato con due figli, la racconta l’operatore pachistano delle presse, Ghulam Murtaza: «A un tratto si è mosso tutto, una cosa forte, molto forte, mi sono detto è finita e siamo scappati fuori. Gerardo era sul muletto, l’ha fermato e anche lui ha iniziato a correre. Ma era indietro. Appena siamo passati dalla porta è venuto giù tutto. Lui era vicino all’uscita ma non è riuscito a evitare le lamiere che hanno distrutto tutto, anche la mia macchina parcheggiata fuori». Murtaza ha 40 anni, una moglie, quattro figli e 1.400 euro al mese di stipendio. «Gerardo era un uomo molto bravo e molto gentile». Per la notte, che sarebbe finita alle sei, lavoravano in dieci. Fra questi anche il nigeriano Casmir Mbanoske, che il titolare dell’azienda, Sergio Dondi, ha accompagnato a casa ieri insieme con Murtaza, rimasti appiedati. Siccome nessuno dei suoi connazionali l’ha più rivisto, una decina di amici di Casmir hanno protestato fuori e dentro i cancelli della Tecopress. «Stiano tranquilli, il loro amico prima o poi si farà rivedere », hanno tentato di tranquillizzarli i carabinieri.

 
NICOLA —Era stata una sua piccola Era stata una sua piccola conquista quella del turno di giorno alla «Ceramica Sant’Agostino». Ma venerdì e sabato a Nicola Cavicchi, 35 anni, è toccata la notte. Un piacere al collega che non poteva andare al lavoro, una fatale sostituzione. L’hanno trovato sotto una trave del reparto altoforni, crollato con la scossa delle 4 del mattino. Senza vita. «Nicola è morto sul colpo — non ha dubbi suo fratello Cristiano —. Bastava qualche metro più in là e forse si sarebbe salvato». Perito elettrotecnico, 35 anni, ferrarese di San Martino, Nicola era stato assunto come manutentore. «Aveva provato per un po’ a fare l’elettricista in proprio, ma alla fine i conti non tornavano». Il suo pallino era il calcio. Accanito tifoso del Milan, ha giocato fino allo scorso anno come difensore di fascia del San Carlo, una squadra dilettantistica locale. Altra passione, il mare. «Andava ai Lidi Ferraresi il fine settimana. Ricordo che venerdì scorso, dopo aver accettato la sostituzione, ha guardato le previsioni, ha visto due gocce sull’Adriatico e ha detto "ma sì, non mi perdo un granché"». Sognava una famiglia. «Si era fatto anche la casa, sotto la mia, pensando di sposarsi con la fidanzata ma poi gli è andata male e si sono lasciati». Domenica notte alle 4.15 Cristiano ha iniziato a chiamarlo: «Ma lui niente, niente, niente...».

Le macerie dell'altoforno dove è morto Leonardo Ansaloni, 51 anni
Le macerie dell'altoforno dove è
morto Leonardo Ansaloni, 51 anni
LEONARDO — Era la prima notte in fabbrica dell’operaio Leonardo Ansaloni, addetto agli altoforni. È stato sorpreso dal crollo del tetto mentre tentava la fuga con il collega Nicola Cavicchi. Entrambi dipendenti della Ceramica Sant’Agostino che con i suoi 380 addetti rappresenta il colosso industriale di questo piccolo centro nato fra i campi di grano del Ferrarese. Cinquantuno anni, originario di Bondeno, viveva a Sant’Agostino con la moglie Gloria e i loro due figli di 8 e 18 anni. Lavoro pesante il suo, conduttore dei forni ceramici, cioè cuoco delle lastre da pavimento e rivestimento che l’azienda produce e distribuisce in mezzo mondo. A differenza di Cavicchi, per il quale i primi soccorritori hanno capito subito che non c’erano margini di salvezza, Ansaloni è rimasto aggrappato alla vita per un po’. Poi, in mattinata, il cedimento. Il responsabile di stabilimento non si dà pace: «Giovanni è corso a chiamarmi dicendomi che erano rimasti sotto, ma io non riuscivo ad aiutarli». Giovanni è Giovanni Grossi che si trovava con loro nell’ala vecchia dello stabilimento ed è il miracolato della notte. Davanti agli occhi dei dirigenti rimane un immenso groviglio di legno, ferro e ceramica. C’è chi piange, chi si dispera, chi tace. «È una lama nel cuore di Sant’Agostino».
di Andrea Pasqualetto Corriere.it