Bombe, stragi e verità
Capaci e via D'Amelio vent'anni dopo
Falcone e Borsellino, così la retorica di Stato uccide verità e memoria
[Vi riporto parte della prefazione di Roberto Scarpinato, procuratore
generale di Caltanissetta, a "Le ultime parole di Falcone e Borsellino"
(a cura di Antonella Mascali, Chiarelettere). In questo libro gli
interventi, le interviste, le parole di Giovanni Falcone (1939--1992) e
Paolo Borsellino (1940--1992) a vent’anni
dalla loro morte.]
di Roberto Scarpinato
Più
trascorrono gli anni e più cresce la mia sensazione di disagio nel
partecipare il 23 maggio e il 19 luglio alle pubbliche cerimonie
commemorative delle stragi di Capaci e di via D’Amelio.
La retorica
di Stato ha i suoi rigidi protocolli ed esige che il discorso pubblico
venga epurato da ogni sconveniente riferimento alle travagliate vicende
che segnarono le vite di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino,
preparandone lentamente la morte.
Relegando nel fuori scena della
storia quelle vicende, questa forma di autocensura consegna così alla
memoria collettiva una narrazione tragica e, nello stesso tempo,
semplice e pacificata, che si può riassumere nei seguenti termini:
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono assassinati perché con il
loro lavoro di integerrimi magistrati, culminato nelle condanne inflitte
con il maxiprocesso, erano il simbolo di uno Stato che aveva sferrato
un colpo mortale a Cosa nostra, mandando in frantumi il mito della sua
invincibilità. I carnefici, i portatori del male di mafia, sono stati
identificati e condannati. Hanno i volti noti di coloro che
l’immaginario collettivo ha già elevato a icone assolute e totalizzanti
della mafia: Totò Riina, Bernardo Provenzano e altri personaggi di tal
fatta; per lo più ex villici che si esprimono in un italiano
maldigerito, i cui tratti fisiognomici, duri e sprezzanti, quasi
appaiono lombrosianamente rivelatori della loro intima natura crudele.
Secondo
questa rappresentazione, la mafia è costituita da una minoranza di
criminali che, come si usa ripetere, costituisce una sorta di fungo
malefico, di tumore all’interno di una società costituita da un’assoluta
maggioranza di onesti: una netta linea di confine separa la città
dell’ombra, abitata dai portatori del male di mafia, dalla città della
luce, popolata dagli innocenti.
Il male, dunque, è fuori di noi e può essere catarticamente proiettato sul monstrum (colui che viene messo in mostra).
A
volte qualcuno tra gli oratori si spinge ai limiti dell’arditezza,
alludendo anche alla corresponsabilità di colletti bianchi che si
muovono ambiguamente lungo quella linea di confine. E, tuttavia, quasi a
voler rassicurare se stesso oltre che l’uditorio, l’oratore provvede
subitaneamente a ridimensionare quest’ardita digressione – che
rischierebbe di incrinare le serene certezze di tanti – specificando che
nella maggior parte dei casi si tratta di «semplice» responsabilità
morale e, per il residuo, di singole mele marce nel paniere delle mele
buone. Del resto, in quale buona famiglia non esiste qualche pecora
nera?
Fine della cerimonia e saluti delle autorità, tra le quali
purtroppo siedono, talora in prima fila, anche personaggi dai dubbi
trascorsi, ai quali si è costretti a stringere la mano per dovere di
ruolo.
Si ritorna quindi a casa e coloro che, come me e pochi altri,
hanno vissuto queste vicende in prima persona, portandone dentro segni
indelebili, vengono colti da un senso di spaesamento per l’impossibilità
di riconoscersi in una simile narrazione degli eventi.
Il peso del rimosso, della parte della storia relegata nel fuori scena, è infatti tale da stravolgerne completamente la chiave di lettura e il senso globale.
La
realtà che abbiamo vissuto e sofferto con Giovanni e Paolo racconta
che, diversamente da quanto si ripete nelle cerimonie ufficiali, il male
di mafia non è affatto solo fuori di noi, è anche «tra noi».
Racconta
che gli assassini e i loro complici non hanno solo i volti truci e
crudeli di coloro che sulla scena dei delitti si sono sporcati le mani
di sangue, ma anche i volti di tanti, di troppi sepolcri imbiancati. Un
popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole
e che affollano i migliori salotti: presidenti del Consiglio, ministri,
parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana,
vertici dei servizi segreti e della polizia, alti magistrati, avvocati
di grido dalle parcelle d’oro, personaggi apicali dell’economia e della
finanza e molti altri. Tutte responsabilità penali certificate da
sentenze definitive, costate lacrime e sangue, e tuttavia rimosse da una
retorica pubblica e da un sistema dei media che, tranne poche
eccezioni, illuminano a viva luce solo la faccia del pianeta mafioso
abitata dalla mafia popolare, quella del racket e degli stupefacenti,
elevando una parte a simbolo del tutto.
Mediante tale selettività
a senso unico dei materiali utilizzati per la costruzione del sapere
sociale sulla mafia, si pone così in essere un riduzionismo della storia
globale che realizza una sorta di amnistia permanente della memoria per
amnesia collettiva.
In realtà il gorgo che ha inghiottito migliaia di vite chiama in causa quello che lucidamente Giovanni Falcone definiva «il
gioco grande» del potere, di cui il sistema mafioso sin dall’Unità
d’Italia è sempre stato importante coprotagonista, come dimostrano la
lezione della storia, gli esiti di tanti processi, e come confermano, da
ultimo, anche le indagini sulle stragi del 1992.
Indagini segnate da
inquietanti depistaggi (falsi collaboratori introdotti nel processo per
la strage di via D’Amelio), dalla sparizione di documenti cruciali
(l’agenda rossa di Paolo Borsellino e, prima ancora, i documenti
custoditi nell’abitazione di Salvatore Riina). Indagini che, come quella
sulla trattativa tra alcuni esponenti dello Stato e la mafia per porre
fine alle stragi, hanno anche innescato una sorta di triste sagra di
Stato degli smemorati di Collegno, intessuta di tanti «non ricordo», di
reciproche smentite, di rivelazioni parziali. Frammenti di verità che
emergono solo a distanza di decenni dagli eventi, dopo essere stati
estratti con il forcipe delle indagini penali a imbarazzati e riottosi
custodi di segreti consumatisi in quel fuori scena della storia da sempre bandito dalle cerimonie ufficiali.
La delegittimazione di Falcone e Borsellino
Questo
libro raccoglie alcuni degli scritti e degli interventi di Giovanni
Falcone e Paolo Borsellino, ma il lettore immemore delle vicende di
quegli anni difficilmente potrebbe intravedere attraverso il prisma
delle loro parole, sofferte ma sempre doverosamente misurate, il vero
volto dell’immane sistema di potere con il quale essi dovettero
misurarsi, rischiando sempre di soccombere.
La vera chiave di lettura dei testi sta nel fuori testo, nel non detto e nel non dicibile.
Giovanni
e Paolo dovevano fare un attento governo delle parole nella
comunicazione pubblica, non solo per il senso di responsabilità proprio
dei delicati ruoli istituzionali ricoperti, ma anche per la
consapevolezza che le loro parole potevano essere strumentalizzate e
ritorte contro di loro da un variegato mondo di potenti che li viveva
come variabili indipendenti dagli equilibri esistenti e, dunque,
pericolosamente incontrollabili. Quel mondo che li lavorava ai fianchi
tentando di isolarli all’interno dei loro stessi uffici con occulte
manovre di potere, che incessantemente rovesciava loro addosso un
impressionante volume di fuoco di parole per delegittimarli e
neutralizzarli, li attendeva proprio al varco delle loro parole di
risposta, per isolarli e travolgerli definitivamente.
Ne fece
diretta esperienza Paolo Borsellino quando, in due interviste rilasciate
nel luglio 1988 ai giornalisti Attilio Bolzoni e Saverio Lodato, lanciò
in campo nazionale l’allarme sulla silenziosa opera di smobilitazione
del pool antimafia posta in essere dal consigliere Antonino Meli, nuovo
capo dell’Ufficio istruzione che aveva preso il posto di Antonino
Caponnetto e che era stato preferito dal Consiglio superiore della
magistratura a Giovanni Falcone, da tutti ritenuto invece il suo
successore naturale:
Vogliono smantellare il pool antimafia.
Fino a poco tempo fa tutte le indagini antimafia, proprio per
l’unitarietà dell’organizzazione chiamata Cosa nostra, venivano
fortemente centralizzate nel pool della Procura e dell’Ufficio
istruzione. Oggi invece i processi vengono dispersi in mille rivoli.
Tutti si devono occupare di tutto, è questa la spiegazione ufficiale, ma
è una spiegazione che non convince. La verità è che Giovanni Falcone
purtroppo non è più il punto di riferimento principale [...] Le indagini
si disperdono in mille canali e intanto Cosa nostra si è riorganizzata,
come prima e più di prima.
Una rigorosa ispezione
ministeriale disposta dal ministro della Giustizia Giuliano Vassalli
avrebbe accertato poco tempo dopo che i fatti denunciati da Paolo
Borsellino rispondevano a verità. Eppure Paolo per quell’intervista fu
trascinato dinanzi al Consiglio superiore della magistratura rischiando
il procedimento disciplinare, da cui scampò solo perché Giovanni Falcone
venne in suo soccorso, comunicando il 30 luglio la sua richiesta di
essere trasferito ad altro ufficio con parole che nel loro rompere gli
argini denunciavano che la sconfitta del pool si era ormai consumata:
Ho
tollerato in silenzio in questi ultimi anni in cui mi sono occupato di
istruttorie sulla criminalità mafiosa le inevitabili accuse di
protagonismo o di scorrettezze nel mio lavoro. Ritenendo di compiere un
servizio utile alla società, ero pago del dovere compiuto e consapevole
che si trattava di uno dei tanti inconvenienti connessi alle funzioni
affidatemi. Ero inoltre sicuro che la pubblicità dei relativi
dibattimenti avrebbe dimostrato, come in effetti è avvenuto, che le
istruttorie cui io ho collaborato erano state condotte nel più assoluto
rispetto della legalità. Quando poi si è prospettato il problema della
sostituzione del consigliere istruttore di Palermo, dottor Caponnetto,
ho avanzato la mia candidatura, ritenendo che questa fosse l’unica
maniera per evitare la dispersione di un patrimonio prezioso di
conoscenze e di professionalità che l’ufficio a cui appartengo aveva
globalmente acquisito. Forse peccavo di presunzione e forse altri
potevano assolvere egregiamente all’esigenza di assicurare la continuità
dell’ufficio. È certo però che esulava completamente dalla mia mente
l’idea di chiedere premi o riconoscimenti di alcun genere per lo
svolgimento della mia attività.
Il ben noto esito di questa
vicenda non mi riguarda sotto l’aspetto personale e non ha per nulla
influito, come i fatti hanno dimostrato, sul mio impegno professionale.
Anche
in quella occasione però ho dovuto registrare infami calunnie e una
campagna denigratoria di inaudita bassezza cui non ho reagito solo
perché ritenevo, forse a torto, che il mio ruolo mi imponesse il
silenzio. Ma adesso la situazione è profondamente cambiata e il mio
riserbo non ha più ragione di essere.
Quello che
paventavo è purtroppo avvenuto: le istruttorie nei processi di mafia si
sono inceppate e quel delicatissimo congegno che è costituito dal gruppo
cosiddetto antimafia dell’Ufficio istruzione di Palermo, per cause che
in questa sede non intendo analizzare, è ormai in stato di stallo. Paolo
Borsellino, della cui amicizia mi onoro, ha dimostrato ancora una volta
il suo senso dello Stato e il suo coraggio denunciando pubblicamente
omissioni e inerzie nella repressione del fenomeno mafioso che sono
sotto gli occhi di tutti.
Come risposta è stata innescata
un’indegna manovra per tentare di stravolgere il profondo valore morale
del suo gesto, riducendo tutto a una bega tra «cordate» di magistrati, a
una «reazione», cioè, tra magistrati «protagonisti», «oscurati» da
altri magistrati che, con diversa serietà professionale e con maggiore
incisività, condurrebbero le indagini in tema di mafia.
Tuttavia,
essendo prevedibile che mi saranno chiesti chiarimenti sulle questioni
poste sul tappeto dal procuratore di Marsala, ritengo di non poterlo
fare se non a condizione che non vi sia nemmeno il sospetto di tentativi
da parte mia di sostenere pretese situazioni di privilegio (ciò,
inevitabilmente, si dice adesso a proposito dei titolari di indagini in
tema di mafia). E allora, dopo lunga riflessione, mi sono reso conto che
l’unica via praticabile a tal fine è quella di cambiare immediatamente
ufficio. E questa scelta, a mio avviso, è resa ancora più opportuna dal
fatto che i miei convincimenti sui criteri di gestione delle istruttorie
divergono radicalmente da quelle del consigliere istruttore divenuto
titolare, per sua precisa scelta, di tutte le istruttorie in tema di
mafia.
Mi rivolgo pertanto alla sensibilità del
presidente del Tribunale affinché, nel modo che riterrà più opportuno,
mi assegni ad altro ufficio nel più breve tempo possibile; per intanto
chiedo di poter iniziare a usufruire delle ferie con decorrenza
immediata. Prego vivamente, inoltre, l’onorevole Consiglio superiore
della magistratura di voler rinviare la mia eventuale audizione a epoca
successiva alla mia assegnazione ad altro ufficio.
Mi auguro che
queste mie istanze, profondamente sentite, non vengano interpretate come
un gesto di iattanza, ma per quello che riflettono: il profondo disagio
di chi è costretto a svolgere un lavoro delicato in condizioni tanto
sfavorevoli e l’esigenza di poter esprimere compiutamente il proprio
pensiero senza condizionamenti di sorta.
Le dimissioni di
Falcone furono respinte, l’allarme di Borsellino venne ignorato, il pool
antimafia venne smobilitato e le inchieste su Cosa nostra, prima
centralizzate nell’Ufficio istruzione, furono disseminate in una
molteplicità di uffici giudiziari siciliani, determinando così l’esito
infausto di molte indagini.
A rileggerla a distanza di quasi un
quarto di secolo, tutta questa vicenda ha quasi dell’incredibile.
Borsellino e Falcone, artefici della straordinaria riscossa dello Stato
contro la mafia grazie al nuovo metodo di indagine inaugurato con
Antonino Caponnetto, sollevano un problema reale e drammatico. Il Csm,
invece di prestare loro attento ascolto, mette sotto inchiesta
Borsellino e alla fine assiste con vigile indifferenza al compimento
della smobilitazione del pool e all’arretramento dell’impegno dello
Stato in una fase cruciale.
La chiave di comprensione di questa e
di altre complesse vicende – come quella che in precedenza, grazie a
una accorta regia, aveva impedito che Falcone venisse nominato capo
dell’Ufficio istruzione di Palermo – non si trova all’interno della
«città dell’ombra» abitata dai semianalfabeti Riina e Provenzano, ma nei
recessi della «città della luce» popolata dagli onesti nonché da una
folla di piccoli e grandi Don Rodrigo, senza i quali quelli come Riina,
eredi dei «bravi» di manzoniana memoria, sarebbero stati archiviati da
tempo come relitti di un passato premoderno o si sarebbero acconciati a
pagare in silenzio il prezzo della galera per i loro crimini, senza
poter contare su protezioni eccellenti e senza mai osare sfidare lo
Stato.
Il pool antimafia viene in realtà smobilitato perché era
divenuto il terreno di manovra di un war game in cui la vera posta in
gioco era la sopravvivenza stessa del sistema di potere siciliano, una
delle architravi portanti di quello nazionale.
Per tentare di
comprendere nel breve spazio di una prefazione come e perché ciò fosse
avvenuto bisogna riavvolgere velocemente all’indietro il nastro della
memoria fermandolo a qualche anno prima che iniziasse l’avventura del
pool antimafia.
Gli anni Ottanta e il sacrificio di Costa e Chinnici
È
l’agosto del 1980. In una chiesa di Palermo si celebrano i funerali di
Gaetano Costa, procuratore della Repubblica di Palermo assassinato a
colpi di pistola il giorno 6 di quel mese dai killer della mafia. Ad
assistere al rito funebre sono presenti solo parenti, amici e le
autorità. È assente l’establishment di Palermo, quel gotha di politici,
imprenditori, finanzieri che signoreggia sulla Sicilia e che non fa mai
mancare la propria presenza ai funerali dei potenti. Assenza
significativa ove si tenga conto che il procuratore della Repubblica di
Palermo è sempre stato considerato uno degli uomini più potenti della
città e del paese. Mancano molti, troppi magistrati del Palazzo di
giustizia.
Manca, soprattutto, la gente comune, quella folla
sterminata di persone che nel 1992, dopo le stragi di Capaci e di via
D’Amelio, riempirà le chiese, le piazze e le vie della città.
Cosa
significa quell’assenza, segno tangibile di una solitudine tanto più
rimarchevole ove si consideri la statura dell’uomo di Stato di cui si
celebrano le esequie: ex partigiano e magistrato integerrimo,
precursore, già quando in precedenza aveva ricoperto l’incarico di
procuratore di Caltanissetta, delle prime indagini bancarie sul
riciclaggio mafioso?
È la stessa solitudine, consegnata solo al
segreto dei propri diari o a pochi intimi, che avrebbe attanagliato
anche Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio istruzione del Tribunale di
Palermo, assassinato con un’autobomba il 29 luglio 1983, Carlo Alberto
dalla Chiesa, prefetto di Palermo, assassinato il 3 settembre 1982, e
altri uomini accomunati dall’essere avanguardie isolate di un’antimafia
che stava iniziando la sua travagliata e sanguinosa marcia, facendosi
strada tra l’indifferenza popolare e l’occhiuta insofferenza dei
potenti.
È la stessa solitudine che faceva dire in quegli anni a
Falcone che talora gli sembrava che la gente assistesse alla lotta
contro la mafia come il pubblico che sugli spalti assiste a una corrida.
Taluni tifavano per il torero, altri per il toro, ma tutti erano
comunque spettatori passivi di uno spettacolo gladiatorio il cui
epilogo, la morte violenta, emozionava per un attimo per poi dileguarsi
nell’oblio.
Negli scritti raccolti in questo volume si trovano alcuni
passaggi che rievocano quel clima e che indicano alcune possibili
spiegazioni dell’indifferenza della società civile.
Una motivazione
andava certamente ricercata nella generalizzata ignoranza della realtà
della mafia di cui per decenni si era voluta pervicacemente negare
l’esistenza, riducendola a semplice fenomeno di costume, a invenzione
dei comunisti per screditare il buon nome dell’isola o a semplice
criminalità comune, nonostante l’inesauribile stillicidio di omicidi e
di stragi che sin dall’Unità d’Italia aveva lasciato sul terreno
centinaia di vittime.
A questo riguardo, nello scritto La mafia come Antistato, Falcone afferma:
Mi
sembra di rileggere un copione già scritto perché tante altre volte
sono stati assunti questi atteggiamenti e tante altre volte sono stati
contestati, in quanto espressione della sostanziale indifferenza della
società italiana rispetto al problema, o peggio, della assuefazione
rispetto al triste rito delle morti che scandisce le dinamiche mafiose.
[...] Debbo purtroppo registrare che questi problemi suscitano
l’attenzione dell’opinione pubblica solo in presenza di fatti eclatanti
e, malgrado l’importanza del fenomeno, non trovano approfondimento
scientifico se non da parte di studiosi stranieri, tranne qualche
lodevole eccezione; [...] Mi ha stupito sentir dire da un noto sociologo
che la cosiddetta organizzazione mafiosa è un’accozzaglia di bande in
perenne lotta l’una contro l’altra e che se i mafiosi si ammazzano tra
loro non è un grosso problema. Se così si ritiene dagli studiosi del
fenomeno non ci si può meravigliare se in certe sentenze si sostiene
qualcosa di analogo che sicuramente non risponde alla realtà criminale.
Sul punto ritorna anche nello scritto La mafia non è invincibile:
Anche
fra i rappresentanti della legge c’era chi dubitava perfino
dell’esistenza della mafia come organizzazione criminale. Ricordo la
domanda che mi rivolse un collega dell’Ufficio istruzione, con
un’esperienza pluriennale: «Ma tu credi veramente che esista la mafia?».
[...] Era il periodo in cui nei quotidiani locali si aveva ritegno a
nominare la mafia, tanto che gli omicidi mafiosi venivano quasi sempre
etichettati come opera di una «bieca mano assassina» e in cui le
indagini [...] erano ormai avviate verso il totale insuccesso. [...] Il
disinteresse dello Stato nei confronti della mafia era pressoché totale
[...]. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se i fenomeni criminali della
mafia, della camorra, della ’ndrangheta venivano vissuti dall’opinione
pubblica nazionale in maniera disattenta e svogliata [...].
A
proposito della manipolazione mistificatoria che ha sempre
contrassegnato la costruzione sociale del sapere sulla mafia – prima
negata sic et simpliciter, poi ridotta ad «accozzaglia di bande
in perenne lotta l’una contro l’altra» e, infine, a storia di bassa
macelleria criminale di cui sarebbero protagonisti solo personaggi come
Riina e Provenzano – va ricordato come ancora nel 1982 il sindaco di
Palermo Nello Martellucci, esponente di punta della corrente
andreottiana, si fosse opposto pubblicamente alla concessione di poteri
speciali al prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa per coordinare la lotta
alla mafia, dichiarando che la mafia lui non l’aveva mai vista e che
quella di Palermo era solo criminalità comune, come ve ne era in tutto
il paese. E ciò, si badi bene, avveniva dopo l’impressionante catena di
omicidi mafiosi che aveva lasciato sul terreno Michele Reina, segretario
provinciale della Democrazia cristiana (9 marzo 1979), Boris Giuliano,
capo della Squadra mobile di Palermo (21 luglio 1979), Cesare Terranova,
già capo dell’Ufficio istruzione di Palermo (25 settembre 1979),
Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana (6 gennaio
1980), Emanuele Basile, capitano dei carabinieri (4 maggio 1980),
Gaetano Costa, procuratore della Repubblica di Palermo (6 agosto 1980),
Pio La Torre, segretario regionale del Pci (30 aprile 1982).
Ma a
parte l’ignoranza, in buona misura indotta, vi era un’altra ragione
ancora più profonda che alimentava l’indifferenza della società civile:
la gente non riusciva a identificarsi nello Stato.
Questo è uno dei leitmotiv che attraversa dolosamente le riflessioni che Borsellino affida ai suoi scritti e ai suoi interventi.
Così in Una lezione su mafia e legalità, un discorso tenuto agli studenti di Bassano del Grappa il 26 gennaio 1989, affermava:
[...]
il cittadino del Meridione si è sentito lontano, si è sentito estraneo
allo Stato. [...] lo Stato non si presenta con la faccia pulita [...].
Che cosa si è fatto per dare allo Stato, in queste regioni e comunque
dappertutto in Italia, un’immagine credibile? [...] la vera soluzione
sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile,
perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni.
A uno studente che gli chiedeva se si sentisse protetto dallo Stato e se avesse fiducia nello Stato, risponde:
Io
non mi sento protetto dallo Stato perché oggi la lotta alla criminalità
mafiosa viene sostanzialmente delegata soltanto alla magistratura e
alle forze dell’ordine. [...] non si incide sulle cause a fondo di
questo particolare fenomeno criminale.
Spiega quindi come
questa delega – tra l’altro compromessa da mille difficoltà frapposte a
magistrati e poliziotti ai quali venivano fatte mancare risorse e
solidarietà – determinasse la loro sostanziale sovraesposizione,
rendendoli quasi vittime sacrificali. A questo proposito cita, tra gli
altri, l’esempio di Gaetano Costa e di Rocco Chinnici, ricordando come
«coloro
che cominciarono a interessarsi di questi problemi non è che raccolsero
grossa solidarietà all’interno del Palazzo di giustizia».
Lo Stato non è credibile
Riprendendo il filo di queste riflessioni e attingendo all’inesauribile riserva di fatti confinati nella sfera del fuori scena,
sebbene accertati con sentenze definitive, si può aggiungere che la
gente non riusciva a identificarsi con istituzioni che non apparivano
credibili perché si manifestavano con i volti impresentabili di
personaggi come Salvo Lima e Vito Ciancimino, uomini simbolo di una
sterminata fauna politica che annoverava migliaia di esponenti, maschere
e replica seriale di un potere corrotto, in larga misura connivente o
«convivente» con la mafia e interessato solo alla propria
autoriproduzione.
Lo Stato non appariva credibile neanche a Roma,
dove uno di coloro che nell’immaginario collettivo ne costituiva quasi
la personificazione, Giulio Andreotti, sette volte presidente del
Consiglio, ventidue volte ministro, vertice nazionale di una corrente il
cui plenipotenziario in Sicilia era proprio Salvo Lima (per questo
motivo definito «il viceré»), aveva allora rapporti organici con la
mafia, come è stato definitivamente accertato con sentenza della Corte
di appello di Palermo del 2 maggio 2003, confermata in Cassazione il 15
ottobre 2004, nella cui motivazione si legge tra l’altro:
E i
fatti che la Corte ha ritenuto provati dicono che il senatore Andreotti
ha avuto piena consapevolezza che suoi sodali siciliani intrattenevano
amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha, quindi, a sua volta,
coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha loro chiesto
favori; li ha incontrati; ha interagito con essi; ha loro indicato il
comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione
Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, a ottenere che le
stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di
lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio del
presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il
rischio di essere denunciati; ha omesso di denunciare le loro
responsabilità, in particolare in relazione all’omicidio del presidente
Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi
di conoscenza.
Come la Corte ha ritenuto provato in altre
pagine della motivazione, proprio nello stesso anno in cui era stato
assassinato Gaetano Costa, Giulio Andreotti era volato segretamente in
Sicilia per partecipare a un summit mafioso che aveva come oggetto un
affare scottante: l’omicidio di Piersanti Mattarella, anomalo presidente
democristiano della Regione siciliana, assassinato perché aveva osato
mettere in pericolo gli interessi economici del sistema di potere
mafioso, promuovendo un’incisiva azione di moralizzazione della politica
regionale.
Presenti a quella riunione erano alcuni dei più
importanti capi della mafia militare che aveva eseguito l’omicidio,
Salvo Lima e i potentissimi cugini Nino e Ignazio Salvo, esponenti
apicali della borghesia mafiosa a capo di una holding imprenditoriale
tra le più rilevanti del Meridione.
Ma non basta. Lo Stato non
era credibile anche perché prefetti, questori e alti magistrati
partecipavano alle feste, alle cerimonie di inaugurazione di nuove
imprese, alle battute di caccia di personaggi che tutti sapevano essere
mafiosi: come Benedetto Santapaola, capo della mafia corleonese a
Catania, più volte fotografato sorridente insieme al prefetto e ad altre
autorità.
Come Michele Greco, capo della Commissione, organo di
vertice di Cosa nostra, il quale, a guisa di criptico messaggio, prima
di iniziare un interrogatorio, ricordò a Giovanni Falcone che aveva
avuto il piacere di ospitare nella sua tenuta tanti alti magistrati.
Come
i predetti cugini Salvo, le cui feste, documentate dalle foto del
tempo, erano affollate da rappresentanti di uno Stato che, anche per
questo motivo, appariva non credibile.
Ma non basta ancora.
Lo
Stato non era credibile neppure in quella articolazione dalla quale
sarebbe partita la sua riscossa: la magistratura. E qui conviene
ricordare le parole con le quali Giovanni Falcone, nel difendersi
dall’accusa di essere un «giudice sceriffo» perché cercava attivamente
le prove invece di limitarsi a vagliare quelle raccolte dalle forze di
polizia, tratteggia nello scritto Emergenza e Stato di diritto
il ritratto della magistratura di quegli anni, ristagnante in una
tranquilla routine burocratica mentre venivano falcidiati uno dopo
l’altro in tragica successione temporale alcuni tra i più importanti
vertici delle istituzioni:
Qualcuno, forse, potrà rimpiangere
i «bei tempi andati» in cui il pubblico ministero si limitava a dare
una prima scrematura degli elementi di prova forniti dalla polizia
giudiziaria, e il giudice istruttore soleva compiere un’ulteriore
verifica delle prove, spesso con effetto di ulteriore ridimensionamento
dei rapporti di denunzia. E io ricordo ancora quell’alto magistrato che
mi diceva che il giudice istruttore non ha mai scoperto niente e occorre
lasciare che la polizia svolga tranquillamente le indagini. Ciò del
resto – per fortuna in settori sempre meno estesi – è talora
l’atteggiamento di alcuni ufficiali di polizia giudiziaria, che mal
sopportano e ritengono essere una indebita ingerenza il diretto
coordinamento delle indagini da parte del magistrato istruttore. In
realtà, bisogna che tutti si rendano conto che il modello di magistrato
inerte e privo di spirito di iniziativa, se poteva essere rispondente
alle esigenze di un determinato periodo storico e funzionale a un
determinato equilibrio socio-politico, non è mai stato fondato su un uso
legittimo dei poteri istituzionali.
I «bei tempi andati»,
espressione di quell’equilibrio sociopolitico al quale Falcone accenna,
erano anche quelli nei quali, alcuni anni prima, il procuratore generale
presso la Suprema corte di cassazione – il magistrato più alto in grado
di tutta la magistratura inquirente – si era complimentato
pubblicamente con Genco Russo, divenuto capo della mafia siciliana dopo
la morte del suo predecessore, Don Calogero Vizzini, scrivendo su una
rivista giuridica:
Si è detto che la mafia disprezza polizia e
magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la
magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha
ostacolato l’opera del giudice. Nelle persecuzioni ai banditi e ai
fuorilegge... ha affiancato addirittura le forze dell’ordine [...] Oggi
si fa il nome di un autorevole successore nella carica tenuta da Don
Calogero Vizzini in seno alla consorteria occulta. Possa la sua opera
essere indirizzata sulla via del rispetto alle leggi dello Stato e del
miglioramento sociale della collettività.
Nel Palazzo di
giustizia, c’era qualcosa di ancora più inquietante dei ritardi
culturali e delle passività burocratiche: qualcosa con cui Falcone e
Borsellino avrebbero dovuto misurarsi negli anni seguenti, risultando
alla fine perdenti.
A quel qualcosa di inquietante aveva osato fare
riferimento proprio Gaetano Costa, l’uomo lasciato solo a morire dopo
essere stato vissuto come un corpo estraneo, quando il 10 luglio 1978,
insediatosi nel suo nuovo ufficio di procuratore capo a Palermo, aveva
dichiarato: «Non accetterò spinte o pressioni, agirò con spirito di
indipendenza». Frase che aveva suscitato scandalizzati commenti negativi
e che lo aveva connotato da subito come un non allineato, destinato a
essere isolato, perché equivaleva a dire: «So bene che in questo palazzo
vi sono magistrati che subiscono spinte e pressioni. Ma vi avverto, non
provateci con me, perché sono di un’altra razza».
Veleni al Palazzo di giustizia di Palermo
Ma
quali erano le pressioni alle quali faceva riferimento Gaetano Costa di
cui non vi era traccia nei documenti pubblici e alle quali nessuno
aveva mai osato fare aperto riferimento?
Erano, ad esempio, quelle
ripetutamente e invano esercitate su Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio
istruzione di Palermo, altro magistrato non allineato: colui che aveva
il merito di avere reclutato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel suo
Ufficio e che gettò i primi semi della nascita della straordinaria
stagione dell’antimafia palermitana decollata negli anni successivi.
A
testimonianza del clima di assedio vissuto in quegli anni da Costa e
Chinnici in quel Palazzo di giustizia dove i giovani Falcone e
Borsellino iniziavano a lavorare, va ricordato che i due, quando
dovevano parlare di argomenti delicati, si vedevano costretti, per
sottrarsi all’ascolto di orecchie indiscrete, a rinchiudersi
nell’ascensore riservato di servizio, facendo su e giù per i piani per
tutto il tempo necessario.
Nessuno sa cosa si siano detti. Si può
ipotizzare che Chinnici abbia confidato a Costa anche qualcuno degli
episodi di «spinte e pressioni» esercitate in quel Palazzo per pilotare
l’esito di indagini che coinvolgevano i potenti. Episodi che egli ebbe
cura di annotare in un diario, ritrovato dopo il suo tragico assassinio e
di cui vale la pena di ricordare alcuni frammenti:
Così, alla pagina del 18 settembre 1980, Chinnici scrive:
Il
procuratore generale [...] mi raccomanda caldamente il proc. contro
Cuccio Giuseppe imputato di frode valutaria. Lo stesso mi ha
raccomandato il processo contro il di lui genero imputato di falsità in
titolo di credito.
Alla pagina del 14 luglio 1981 si legge:
ore
13. G. Falcone mi comunica che il Primo Presidente della Corte gli ha
caldamente raccomandato il cavaliere del lavoro Graci implicato nella
faccenda Sindona; dopo averlo convocato nel suo ufficio.
Di
episodi simili Chinnici ne annota diversi, ma ve ne è uno
particolarmente emblematico. Si tratta di un incontro avvenuto il 18
maggio 1982 con il presidente della Corte di appello, di cui Chinnici fa
un analitico resoconto:
ore 12 – [Il Presidente] Mi investe
in malo modo dicendomi che all’ufficio istruzione stiamo rovinando
l’economia palermitana disponendo indagini e accertamenti a mezzo della
guardia di finanza. Mi dice chiaramente che devo caricare di processi
semplici Falcone in maniera che «cerchi di scoprire nulla perché i
giudici istruttori non hanno mai scoperto nulla». [...] Cerca di
dominare la sua ira ma non ci riesce. Mi dice che verrà a ispezionare
l’ufficio (e io lo invito a farlo); è indignato perché [non è stata
archiviata] la sporca faccenda dei contributi (miliardi per la
elettrificazione delle loro aziende agricole); l’uomo che a Palermo non
ha mai fatto nulla per colpire la mafia [...] non sa più nascondere le
sue reazioni e il suo vero volto. Mi dice che la dobbiamo finire, che
non dobbiamo più disporre accertamenti nelle banche.
Quante
volte sarà accaduto che nel segreto di quelle stanze siano state
esercitate pressioni su magistrati? E quante volte sarà accaduto che
schiene meno dritte di quelle di Chinnici e Costa si siano piegate, per
timore reverenziale, per quieto vivere, per umana debolezza?
Come
vedremo più avanti, anche Falcone alla fine degli anni Ottanta annoterà
nel suo diario episodi simili da lui constatati alla Procura della
Repubblica di Palermo, dove sarebbe divenuto procuratore aggiunto, a
testimonianza della persistenza nel tempo di un fuori scena che
costituisce il pezzo mancante e insieme una imprescindibile chiave di
lettura per comprendere perché l’avvento di magistrati come Costa,
Chinnici, Falcone, Borsellino avesse determinato l’apertura di una
interna linea di frattura tra due diverse anime della magistratura.
L’una che viveva se stessa e il Palazzo di giustizia come componente
organica del «Palazzo» di pasoliniana memoria, attenta dunque a
esercitare una giurisdizione che si faceva carico delle compatibilità
generali di sistema all’insegna del motto aureo del quieta non movere et mota quietare.
L’altra che voleva invece inverare nella prassi quotidiana il principio
costituzionale dell’indipendenza e dell’autonomia dell’Ordine
giudiziario dal «Palazzo», premessa indispensabile per realizzare il
valore dell’uguaglianza di tutti i cittadini – potenti e impotenti –
dinanzi alla legge, sancito dall’articolo 3 della Costituzione: vera e
propria rivoluzione democratica in un paese come l’Italia dove per
troppo secoli – come aveva scritto Gaetano Salvemini – la legge non era
stata ritenuta rispettabile perché vissuta come la «voce del padrone» e
l’incarnazione di uno Stato forte con i deboli e debole con i forti.
Poiché
le pressioni interne al Palazzo di giustizia per non svolgere più
indagini sui rapporti mafia-economia che coinvolgevano i potenti del
tempo si erano rivelate inefficaci, Chinnici riceve un altro
avvertimento. Ne riferisce Paolo Borsellino in una testimonianza resa il
4 agosto 1983 nel processo per l’omicidio di Chinnici: dopo che
l’Ufficio istruzione aveva emesso un mandato di cattura contro il
cavaliere del lavoro Costanzo, imprenditore catanese ritenuto contiguo
alla mafia, e contro Di Fresco, uomo politico democristiano, Chinnici
era stato sollecitato da un senatore, ex magistrato, a recarsi nella sua
abitazione di Palermo. Qui aveva incontrato l’onorevole Lima – vertice
del potere politico mafioso in Sicilia – il quale gli aveva fatto
presente che le iniziative giudiziarie del suo ufficio venivano
considerate una forma di persecuzione politica per la Dc.
Il 29
luglio 1983 il testardo e non allineato Chinnici viene massacrato sotto
casa insieme agli agenti della sua scorta con un’auto bomba imbottita di
tritolo.
A ucciderlo saranno gli uomini della mafia militare ma,
come riferirà in udienza uno degli esecutori materiali, Giovanni Brusca,
la richiesta di assassinarlo era venuta dal mondo dei colletti bianchi.
A volerne la morte erano stati i potentissimi cugini Salvo, sui quali
Chinnici si era ostinato a indagare sino alla fine.
Gli stessi
cugini Salvo che avevano partecipato con Lima, Andreotti e i quadri
militari della mafia al summit sull’omicidio di Piersanti Mattarella.
Gli stessi cugini Salvo che ospitavano nelle loro feste tanti esponenti
dello Stato. Gli stessi «intoccabili» il cui arresto a seguito del
mandato di cattura emesso negli anni seguenti da Falcone e Borsellino
segnerà l’inizio della fine del pool antimafia di Palermo.
(20 maggio 2012)
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