Tutto per un attimo
Come ogni mattina alle sette in punto la
sveglia cominciò a gracchiare sul comodino. Da sei mesi, giorno dopo giorno, nella
spoglia stanza da letto situata al terzo piano del condominio ubicato alla
Garbatella, in Largo Randaccio, XII municipio di Roma, la scena era sempre la
stessa: lui, ancora rannicchiato in posizione fetale, che appena partiva il
suono dell’aggeggio elettronico dopo essersi girato e rivoltato da una parte e
dall’altra del letto, prima di scivolare fuori dalle lenzuola si stropicciava
gli occhi con tutte e due le punte delle dita, quasi volesse ripulirere con
quel gesto energico il sonno restante nelle orbite, la colla che impediva alle
palpebre di aprirsi. A quel primo rituale ne seguiva un altro, il braccio che
si allungava verso il comodino e la botta, col palmo aperto, sulla suoneria
dell’orologio, giusto in tempo per stoppare il secondo insopportabile gracidio.
E infine la mano che afferrava il pacchetto di Gitanes senza filtro e la
scatolina di svedesi. Una scena che sembrava, nell’ossessiva ripetitività dei
gesti, cronometrata e mandata a memoria in ogni sua parte, e forse lo era date
le abitudini e le manie di Massimo di tenere ogni cosa, anche la più banale,
rigorosamente sotto controllo.
Spenta la sigaretta,
del tutto sveglio, seduto sulla sponda del letto, dopo aver acceso la abat-juor,
con movimenti altrettanto misurati prendeva a vestirsi. Generalmente preferiva
indossare pantaloni senza cintura, con l’elastico in vita, alternando alle
pratiche magliette senza collo camice di tela. Fu così anche quella mattina.
Il suo era un
abbigliamento volutamente anonimo, simile al modo di vestire di milioni di
persone della sua età. E anonima era pure la sua faccia, priva di barba o di
baffi, rassicurante e senza alcun segno che desse nell’occhio o che attirasse
su di lui l’attenzione degli altri. Anonima, da perfetto uomo della porta
accanto.
Finalmente
vestito, ma ancora senza le scarpe ai piedi, andò in cucina e poi in bagno. Ne
uscì sospirando il caffè che già brontolava nella macchinetta. Quando finì di
bere le lancette dell’orologio puntavano le otto, in perfetta sincronia con l’ora
prefissata per il ricevimento del segnale. Difatti, appena accese il cellulare,
come previsto, arrivò il bip che gli annunciava l’arrivo di un messaggio. Aprì la
comunicazione e lesse: - “Tutto bene, è
appena entrato in macchina”. Dopo quindici minuti il bip risuonò ancora: - “Ha lasciato l’auto e sta entrando nel
palazzo”.
Soddisfatto annotò
sulla Moleskine, esattamente nella riga di un prospetto composto da un numero di celle equivalenti ai giorni del mese da lui in precedenza disegnato, la data, una
faccina sorridente tipo emoticon e due minuscoli +.
Esaurita ogni altra incombenza,
dopo aver indossato le scarpe e sbirciato l’orologio, si affrettò a uscire di
casa diretto al tabacchi di Via Persico, la rivendita di sigarette e giornali
lontana suppergiù un chilometro da dove abitava. Secondo i suoi calcoli, a
passo sostenuto, tra andare e tornare, non ci avrebbe impiegato più di sedici minuti.
In tempo, comunque, per accogliere Jole e Michele, i due responsabili dei
nuclei impegnati nell’operazione in corso, e come lui membri della direzione
strategica, attesi alle nove e trenta in punto nel suo appartamento, coi quali
avrebbe definito la scaletta da presentare alla riunione con gli altri membri
dell’organizzazione, prevista prima di mezzogiorno.
Alle nove e trentatrè arrivò Michele, Jole sette minuti dopo. Seduto al
tavolo di cucina Massimo guardando negli occhi l’uomo e la donna sbuffò provocatoriamente
una nuvola di fumo sulle loro facce. Senza smettere di fissarli aprì la sua
agenda nera, tamburrelando nervosamente le dita sul tavolo. Poi, secco, sbottò:
«Compagni, ignorare la puntualità significa farsi beffe della prima regola del
nostro agire politico, la sicurezza. Non ne convenite?».
«Scusa Massimo, è colpa del mio orologio, pensavo di essere in orario e
invece…» disse rispondendo con un filo di voce Michele che fu interrotto da
Jole la quale, in tono meno ossequioso, ribattè scocciata: «Sì, è vero, sono
arrivata tardi e mi spiace, l’autobus sembrava una lumaca, lo sai anche tu, il
traffico di mattina è micidiale. Per spostarsi da una parte all’altra della
città è un’impresa e di autobus, per venire qua, ne ho presi due».
«Basta,
non voglio ascoltare altro. Sorvoliamo, di tempo ne abbiamo già sprecato
troppo. Sappiate però che su questo vostro atto di indisciplina farò, come è
mio dovere, cenno nella riunione della direzione strategica. Dunque…vi ho
convocati per definire gli ultimi dettagli dell’operazione e valutando i
rapporti che mi sono pervenuti direi superati anche gli ultimi ostacoli in
ordine alla regolarità degli spostamenti del Procuratore Generale. Avete altri
elementi su cui dovremmo discutere?».
«Senti… riguardo al
ritardo» aveva iniziato a dire Jole che Massimo la fulminò repentino: «Mi
pareva che questa faccenda fosse ormai argomento chiuso!».
«E no cazzo, tu non
puoi! Non lo trovo giusto. Prima mi paragoni a una che disattende la sicurezza
e poi liquidi la cosa con quel paternalistico “sorvoliamo” rinviando la
questione alla direzione strategica per indisciplina. Trovo sia assurdo! Ho
ammesso il mio ritardo e ti ho chiesto scusa, anche se…».
«Anche se cosa?»
replicò Massimo aggrottando gli occhi.
«Che per un attimo,
il tempo di una sigaretta, vuoi innestare un processo. Può capitare a chiunque
un momento di involontaria defaillance».
«E tu Michele niente
da dire? La tua suscettibilità è stata ferita? Dai, coraggio… parla!» lo invitò
ironico Massimo.
«No, non ho niente
da dire, a me sta bene così!» rispose l’uomo.
«Allora, esimi
compagni, ve la dico io qualcosa. Nei tuoi tre minuti, caro compagno Michele,
poteva accadere di tutto. Per esempio un’improvvisa irruzione dei corpi
speciali venuti a conoscenza del nostro incontro. Se tu fossi stato puntuale
avresti dalla strada notato i preparativi della loro irruzione, avvertendomi
affinché io avessi il tempo di saltare dal terrazzo sul tetto della casa vicina
e da lì defilarmi seguendo la via di fuga di cui vi ho parlato nell’incontro
della scorsa settimana. E se questa eventualità poteva accadere nei tre minuti
di Michele, nei tuoi dieci, compagna Jole, evito persino di raffigurare ipotesi.
In clandestinità gli attimi sono tutto, c’è la vita e la morte, la galera e la
possibilità di continuare la lotta».
Jole, in evidente
imbarazzo nel silenzio calato nella stanza, reagì accavallando le gambe.
Michele, invece, sembrava una statua di gesso tanto si era irrigidito. Le
parole di Massimo erano più che ragionevoli, e lo sapevano. Bastava un piccolo
errore, un’indecisione, la perdita di concen-trazione perché saltasse tutto.
Quando si
guardarono, Jole abbozzò quello che nelle sue intenzioni doveva essere un
sorriso, ma che in realtà gli altri, forse per uno strano movimento dei suoi muscoli
facciali, percepirono come una sforfia di sofferenza. In tre anni di quella
vita condotta consapevolmente al limite, fuori dai canoni di una normalità
rifiutata per scelta, era la prima volta che veniva rimproverta da un membro
dell’organizzazione. Il nucleo Zero era la sua famiglia, tutto il suo mondo. Lei,
figlia di operai, terza di tre fratelli, una laurea in Scienze politiche in
tasca, la vita di prima non se la ricordava nemmeno. Certe notti, in sogno, si
rivedeva bambina a Milano, quando giocava rincorrendosi con il fratellino di un
anno più grande, sul lungo ballatoio del secondo piano o nel cortile della casa
a righiera dietro i Navigli. Certe altre, soprattutto in prossimità di azioni
dove si sarebbe magari sparato, in sogno le apparivano i corridoi della facoltà
affollati di studenti e colleghi del dipartimento dove aveva a lungo prestato
servizio. Eppure, nonostante la durezza e la tensione, non aveva mai smesso
l’idea che un giorno la clandestinità sua e degli altri potesse finire, restituiti
a un mondo più giusto, senza più sfruttati, dove sarebbe stato bello vivere. In
fondo al suo cuore era restata la bambina romantica di un tempo e la donna
conquistata agli ideali di un nuovo umanesimo. Per questo si era sentita ferita
quando Massimo l’aveva accusata di indisciplina rivoluzionaria. Lei non aveva
colpa: “maledetto autobus e maledetto
traffico” pensò scrutando Massimo con la coda dell’occhio. Anche se lui
aveva ragione, lei mai e poi mai avrebbe fatto pesare su un altro compagno un
giudizio così netto e pesante. “Gli
sarebbe bastato un gesto simbolico, che so picchiettare con un dito
sull’orologio e farla finita. Ma lui no… lui è il capo, l’intransigente!”
pensò ingoiando una palla di saliva accumulata in bocca.
Al termine della
riunione di mezzogiorno, ogni membro della direzione strategica sapeva cosa
fare e quali ordini avrebbe impartito agli uomini delle colonne impegnati
nell’operazione. L’appuntamento per tutti era stato fissato per il giovedì
successivo. Operativamente erano quattro i nuclei impegnati più direttamente,
mentre altri due erano stati designati d’appoggio, come staffette lungo
l’itinerario che avrebbe percorso l’auto principale e il corteo della scorta
del Procuratore Manni. Al momento d’accommiatarsi, Jole stringendo la mano di
Massimo disse con voce ferma due parole su cui aveva rimuginato per l’intera
mattinata: «Manteniamoci umani!».
Restato solo,
Massimo provvide a eliminare dalla stanza qualsiasi traccia dei cinque
partecipanti all’incontro. Bruciò i fogli d’appunti, ripulì con cura i
posacenere e armato di scopa spazzò accuratamente il pavimento. Dopo aver
richiuso i sacchetti dell’immondizia, passò il mocio, allungando il lavaggio
anche sul pavimento del minuscolo corridoio d’ingresso. Poi, aprì la porta e
scese lentamente le scale. Chiunque l’avesse notato, avrebbe semplicemente
ricordato un uomo diretto a depositare i sacchetti che stringeva nella mano nei
bidoni della spazzatura posti all’esterno del condominio.
All’imbrunire di mercoledì
chiuso il piccolo trolley dove aveva riposto i suoi effetti personali, lasciò
la casa. A quell’ora nessuno l’avrebbe notato scendere le scale. Prima di
uscire dal portone, infilò nella cassetta per le lettere le chiavi
dell’appartamento. Percorso mezzo chilometro si fermò alla fermata del
sessantasei, il bus diretto in centro
città. Scese alla fermata in zona Piramide e si affrettò a raggiungere, come un
qualsiasi turista, la Pensione Flavia, dove avrebbe trascorso la notte.
Seduto in poltrona
consumò i due panini che si era preparato nell’altra casa scorrendo le immagini
del telegiornale, seguendo sia l’edizione nazionale sia quella regionale. Stufo
si distese sul letto e iniziò la lettura di una rivista. Si soffermò su un
articolo intervista di un esponente legato alla cooperazione internazionale,
incuriosito dal titolo: - “Per quanto
difficile, manteniamoci umani”. Curiosità accresciuta perché le parole
riportate in evidenza facevano il paio con quelle pronunciate da Jole due
giorni prima, al termine della direzione strategica. Ne sorrise, ma non potè
fare a meno di ripensare alla discussione con la donna e alle decisioni assunte,
su sua proposta, dall’organismo politico nei confronti dei due compagni,
censurati per negligenza. – “Mah, forse
sono stato troppo duro, ma le regole sono regole, e vanno rispettate”.
Finito l’articolo si addormentò profondamente.
Alle sette in punto
Massimo era già in strada. Da lì a poco sopraggiunse in macchina Valerio. In
cinque minuti raggiunsero gli altri compagni già appostati vicino la casa del
Procuratore. Appena l’auto con a bordo Massimo parcheggiò, uno degli occupanti
delle altre macchine ne discese e si avvicinò per conferire. «Qui tutto a
posto, non abbiamo notato alcun movimento sospetto».
«Bene, ormai ci
siamo, mancano sette minuti. Mi raccomando, si parte al mio segnale.
Riferiscilo agli altri, al mio segnale e che nessuno prenda iniziative
personali. Va e buona fortuna a tutti!» disse Massimo con un tono da cui non
traspariva alcuna alterazione emotiva.
In orario perfetto,
allo scadere del settimo minuto, da dietro la curva comparve la prima auto di
scorta seguita a ruota dalla macchina che avrebbe ospitato il Procuratore e
dall’altra che chiudeva il corteo. In contemporanea si senti il rumore di una
serratura che scattava e il breve cigolio della porta d’ingresso della villetta
che si spalancava. Ne uscì una donna con un bambino tenuto per mano e subito
dopo apparve anche il Procuratore Manni. I tre percorsero affiancati i pochi
metri che separavano il giardino dalla strada, sino al cancello della villetta.
Già in posizione fuori dalle auto gli uomini della scorta aspettavano solo che
il Procuratore varcasse il cancelletto. Analogamente, pronti a farsi avanti, i
componenti del nucleo Zero appostati sul marciapiedi di fronte alla casa. Loro,
secondo il piano messo a punto, sarebbero intervenuti appena il capo scorta
avesse fatto entrare l’obiettivo in auto. Era questione di secondi: né un
attimo prima, né un attimo dopo. Sul sincronismo, con maniacale pignoleria,
Massimo ci aveva lavorato a lungo.
Aperto il
cancelletto, il Procuratore, per raggiungere l’auto della scorta, doveva
discendere solo una doppia rampa di quattro gradini, alla base dei quali
l’attendeva, pistola in pugno, il maresciallo De Blasio, capo di quel drappello
di carabinieri comandati a proteggerter l’importante magistrato. Fu allora,
quando aveva già calpestato l’intera prima rampa, che il piccolo Fabio prese a
strillare: «Papà… papà non mi hai dato il bacio, papà voglio il bacino!».
Nonostante i
tentativi di rabbonire il bambino, la signora Marta richiamò il marito: «Carlo,
ti prego… accontentalo» e rivolta al capo scorta fermo in attesa sul
marciapiede: «Maresciallo ci scusi, solo il tempo di un bacino».
Tornato sui suoi
passi il Procuratore si fermò fuori dal cancelletto. Marta sollevò il piccolo
Fabio affinchè il papà potesse baciarlo. Per riuscirci il Procuratore,
sorreggendosi alle sbarre del cancelletto, dovette sollevarsi sulla punta dei piedi
per assestare sulle gote del figlio il bacio richiestogli.
Sull’altro lato
della strada, protetto dietro un tabellone pubblicitario, Massimo osservando la
scena del Procuratore issatosi sulla punta dei
piedi per baciarte il figlio, fu rapito da un ricordo che lo riportò
indietro a quando lui era bambino. Una scena alquanto simile a quella cui aveva
assistito, con suo padre che per baciarlo si issò anch’egli sulla punta dei
piedi, suscitando una gran risata di mamma Luigina e della sorella Erminia.
Perso in quel
ricordo, il capo del nucleo Zero non s’accorse del subitaneo ritorno del
magistrato verso l’auto di scorta. E dato che l’ordine di intervento doveva
darlo lui, nessuno del gruppo si mosse quando, chiuso lo sportello, l’auto dei
carabinieri ripartì dileguandosi a velocità sostenuta.
Conscio di quanto
l’aspettava, si lasciò scappare tra i denti alcune parole: «Tutto per un
attimo, un maledetto attimo!...».
Vladimiro Forlese
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