Morti e violenze. E' questo il drammatico bilancio
L’analisi annuale del Sindacato Internazionale
(ITUC) traccia un quadro sulla condizione di milioni di persone. La
repressione più forte in America Latina. In Colombia il primato degli
omicidi. Situazioni drammatiche anche in Bangladesh, Pakistan,
Filippine, Uganda e Swaziland.
Noam Chomsk: è in atto un’opera di desindacalizzazione, flessibilizzazione e deregolamentazione nei paesi poveri, ma anche industrializzati
È un vero e proprio bollettino di guerra il rapporto annuale del sindacato internazionale ITUC sulle
violazioni dei diritti del lavoro: nel 2010 sono stati uccisi 90
sindacalisti, almeno 2.500 sono stati arrestati e almeno 5 mila
“semplicemente” licenziati.
“In tutto il mondo ci sono lavoratori e cittadini che tentano di
rivendicare i diritti elementari a un lavoro dignitoso e a una vita
dignitosa, ma in molti paesi queste persone trovano solo violenza e
repressione da parte dei governi e delle imprese, fino ai casi estremi
degli omicidi”, commenta la segretaria generale Sharan Burrow.
Sindacalisti sotto tiro.
La repressione più forte continua a essere registrata in America
Latina, dove la Colombia detiene il primato degli omicidi, con 49 casi.
Dieci morti anche in Guatemala e altri in Brasile, a El Salvador, in
Honduras. L’altra metà è distribuita tra Bangladesh, Pakistan e
Filippine, in Asia, e Swaziland e Uganda in Africa. Importante anche il
caso dell’Iran, dove il rappresentante degli insegnanti è stato
impiccato dopo un processo sommario, nonostante le proteste popolari e
le pressioni internazionali. L’unica nota positiva riguardo all’Iran è
il rilascio – solo qualche giorno fa – di Mansoor Onsanloo, in carcere
da cinque anni per avere avviato uno sciopero dei trasporti a Teheran.
Le minacce di morte e le intimidazioni sono molto diffuse anche in altri
paesi: dalle dittature evidenti, come la Bielorussia, lo Zimbabwe e la
Birmania, alle democrazie apparenti, come la Russia, il Messico e la
Nigeria. I due diritti fondamentali del lavoro, ovvero la libertà
sindacale e la contrattazione collettiva, sono ancora molto limitati per
legge nei paesi emergenti come la Cina o in quelli più ricchi,
nell’area mediorientale e del Golfo.
L’attacco globale al lavoro.
Un mese fa, a margine della festa del primo maggio, Noam Chomsky aveva
scritto che ci troviamo di fronte a un “attacco internazionale al
lavoro”. Secondo il linguista americano è in atto un’opera di
desindacalizzazione, flessibilizzazione e deregolamentazione mirata a
creare insicurezza e condizioni di vita precaria, non solo nei paesi in
via di sviluppo ed emergenti, ma anche nei paesi industrializzati. Il
rapporto del sindacato internazionale sembra confermare questa teoria. A
tre anni dalla crisi finanziaria ed economica che ha creato oltre 30
milioni di disoccupati, sembra esserci stata un’ulteriore erosione dei
diritti del lavoro nell’ultimo anno. Secondo l’ITUC, infatti, “ai grandi
poteri finanziari ed economici è stato permesso di dominare le
politiche dei governi mentre disoccupazione, povertà e insicurezza
sociale continuano a crescere”.
Più colpiti i migranti, le donne e i giovani. Ci sono alcune tendenze globali precise che la ricerca mette in evidenza:
la scelta di molti governi di ignorare le norme fondamentali a tutela
del lavoro; la mancanza di sostegno finanziario alle ispezioni e agli
strumenti di tutela sociale; la mancanza di diritti e l’abuso sui
lavoratori immigrati, in modo particolare nei paesi del Golfo Persico;
lo sfruttamento della forza lavoro, prevalentemente femminile, nelle
zone franche per l’esportazione. Senza parlare della crescente
disoccupazione giovanile, non contrastata da politiche adeguate né da
ammortizzatori sociali, ma solo da azioni repressive che ovunque
scatenano ulteriori rivolte, come bene dimostrano i fatti del Nord
Africa e del Medio Oriente. Il sindacato dedica una parte del rapporto
al mondo arabo, denunciando la brutalità con cui i governi hanno
risposto alla domanda di giustizia sociale e di democrazia, dall’Egitto
alla Tunisia, al Bahrain.
I diritti e lo sviluppo.
D’altra parte, per decenni molti governi e alcune istituzioni
economiche internazionali hanno scelto di perseguire politiche liberiste
con forti accenti antisindacali, nella convinzione che una solida
regolamentazione del mercato del lavoro e l’attività dei sindacati
indipendenti fosse un ostacolo allo sviluppo e una minaccia alla
crescita. Al contrario, secondo le norme internazionali del lavoro, la
libertà di associazione e la contrattazione collettiva sono fattori
determinanti per uno sviluppo che si possa definire socialmente
sostenibile. È soprattutto attraverso la contrattazione che si
interviene sui redditi, si legano i salari alla crescita di
produttività, si estendono le tutele sociali. Tutto questo serve ad
alimentare la domanda interna, il consumo, e perciò favorisce l’economia
nel suo complesso. Ma soprattutto favorisce la redistribuzione della
ricchezza, unico vero modo di assicurare la stabilità politica e la
coesione sociale.
fonte Solleviamoci’s Weblog
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