Analisi e riflessioni post elezioniFORSE,
dopo la perdita di Milano e Napoli, la sconfitta al referendum è la più
avvilente nella storia di Berlusconi. Si era messo in testa che
ignorandolo l'avrebbe ucciso, l'aveva definito "inutile", e il giorno
del voto se n'era andato pure al mare, esemplarmente. Niente da fare: il
quorum raggiunto e i quattro sì che trionfano non sono solo un colpo
inferto alla guida del governo.
È
una filosofia politica a franare, come la terra che d'improvviso si
stacca dalla montagna e scivola. È un castello di parole, di chimere
coltivate con perizia per anni. "Meno male che Silvio c'è", cantavano
gli spot che il premier proiettava, squisita primizia, nei festini. Gli
italiani non ci credono più, il mito sbrocca: sembra l'epilogo atroce
dell'Invenzione di Morel, la realtà-non realtà di Bioy Casares. Per il
berlusconismo, è qualcosa come un disastro climatico.
Tante
cose precipitano, nel Paese che credeva di conoscere e che invece era
un suo gioco di ombre: l'idea del popolo sovrano che unge la corona, e
ungendola la sottrae alla legge. L'idea che il cittadino sia solo un
consumatore, che ogni tanto sceglie i governi e poi per anni se ne sta
muto davanti alla scatola tonta della tv. L'idea che non esistano beni
pubblici ma solo privati: il calore dell'aria, l'acqua da bere, la legge
uguale per tutti, la politica stessa. L'idea, più fondamentale ancora,
che perfino il tempo appartenga al capo, e che un intero Paese sia schiavo
del
presente senza pensare - seriamente, drammaticamente - al futuro. Più
che idee, erano assiomi: verità astratte, non messe alla prova. Non
avendo ottenuto prove, il popolo è uscito dai dogmi. Lo ha fatto da
solo, senza molto leggere i giornali, gettando le proprie rabbie in
rete. È una lezione per i politici, i partiti, i giornali, la tv. La
fiamma del voto riduce una classe dirigente a mucchietto di cenere.
Pochi hanno visto quello che accadeva: il futuro che d'un tratto
irrompe, la stoffa di cui è fatto il tempo lungo che gli italiani hanno
cominciato a valutare. Erano abituati, gli elettori, a non votare più ai
referendum. Questa volta sono accorsi in massa: a tal punto si sentono
inascoltati, mal rappresentati, mal filmati. Nessuna canzoncina
incantatrice li ha immobilizzati al punto di spegnerli. Berlusconi lo
presentiva forse, dopo Milano e Napoli, ma come un automa è caduto nella
trappola in cui cadde Craxi nel 1991 - andare al mare mentre si vota è
un rozzo remake - e con le sue mani ha certificato la propria
insignificanza. Impreparato, è stato sordo all'immenso interrogativo che
gli elettori di domenica gli rivolgevano: se la sovranità del popolo è
così cruciale come proclama da anni, se addirittura prevale sulla legge,
la Costituzione, come mai il Cavaliere ha mostrato di temere tanto il
referendum? Come spiegare la dismisura della contraddizione, che oggi lo
punisce?
Il popolo incensato da Berlusconi, usato come scudo per proteggere i
suoi interessi di manager privato, non è quello che si è espresso nelle
urne. È quello, immaginario, che lui si proiettava sui suoi schermi
casalinghi: un popolo divoratore di show, ammaliato dal successo del
leader. Chi ha visto Videocracy ricorderà la radice oscena della
seduzione, e le parole di Fabrizio Corona: "Io sono Robin Hood. Solo che
tolgo ai ricchi, e dò a me stesso". Nel popolo azzurro la libertà è
regina, ma è tutta al negativo: non è padronanza di sé ma libertà da
ogni interferenza, ogni contropotere. Ha come fondamento la
disumanizzazione di chiunque si opponga, di chiunque incarni un
contropotere. Di volta in volta sono "antropologicamente diversi" i
magistrati, i giornalisti indipendenti, la Consulta, il Quirinale. Ora è
antropologicamente diverso anche il popolo elettore, a meno di non
disfarsi di lui come Brecht consigliò al potere senza più consensi. Era
un Golem, il popolo - idolo d'argilla che il demiurgo esibiva come
proprio manufatto - e il Golem osa vivere di vita propria. Il premier lo
aveva messo davanti allo sfarfallio di teleschermi che le nuove
generazioni guardano appena, perché la scatola tonta ti connette col
nulla. E quando ti connette con qualcuno - Santoro, Fazio, Saviano -
ecco che questo qualcuno vien chiamato "micidiale" e fatto fuori.
Il popolo magari si ricrederà, ma per il momento ha abolito il Truman
Show. Ha deciso di occuparsi lui dei beni pubblici, visto che il governo
non ne ha cura. Non sa che farsene del partito dell'amore, perché nella
crisi che traversa non chiede amore ai politici ma rispetto, non chiede
miraggi ottimisti ma verità. Accampa diritti, ma non si limita a
questo. Pensare il bene pubblico in tempi di precarietà e disoccupazione
vuol dire scoprire il dovere, la responsabilità. Celentano lunedì sera
ha detto che siamo disposti perfino ad avere un po' più freddo, in
attesa di energie alternative al nucleare. Per questo si sfalda il
dispositivo centrale del berlusconismo: la libertà da ogni vincolo è
distruttiva per l'insieme della comunità. Era ammaliante, ma lo si è
visto: perché simile libertà cresca, è indispensabile che il popolo sia
tenuto ai margini della res publica.
Specialmente nei referendum, dove si vota non per i partiti ma per le
politiche che essi faranno, il popolo prende in mano i tempi lunghi cui
il governo non pensa, e gli rivolge la domanda cruciale: è al servizio
del futuro, un presidente del Consiglio che ha paura dell'informazione
indipendente, che ha paura di dover rispondere in tribunale, che elude
la crisi iniziata nel 2007, che non medita la catastrofe di Fukushima e
considera il no al nucleare un'effimera emozione? Pensa al domani o
piuttosto a se stesso, chi sprezza la legalità pur di favorire piccole
oligarchie, il cui interesse per le generazioni a venire è nullo? Ai
referendum come nelle amministrative il tempo è tornato a essere lungo.
Non a caso tanti dicono: si ricomincia a respirare.
La crisi ha insegnato anche questo: non è vero che il privato sia meglio
del pubblico, che il mercato coi suoi spiriti animali s'aggiusti da sé,
che la politica privatizzata sia la via. I privati non sono in grado di
costruire strade, ferrovie, energia pulita per i nipoti. Vogliono
profitti subito e a basso costo, senza badare alla qualità e alla
durata. Berlusconi si presentò come il Nuovo ed era invece custode di un
disordine naufragato nel 2007. Non era Roosevelt o Eisenhower, non ha
edificato infrastrutture per le generazioni che verranno.
Ogni persona, dice Deleuze, è un "piccolo pacchetto di potere", e
l'etica la costruisce su tale potere. Berlusconi pensava - forse pensa
ancora - che questo potere fosse suo: che non fosse così diffuso in
pacchetti. Pensava che il cittadino non avesse bisogno di verità; che il
coraggio te lo dai nascondendola. Pensava (pensa) che il coraggio
consista nel ridurre le tasse, e chi se ne importa se l'Italia precipita
come la Grecia o se pagheranno i nipoti. Pensava che, bocciato il
legittimo impedimento, puoi farti una prescrizione breve, come se il
popolo non avesse proscritto ogni legge ad personam. Il Cavaliere ha
eredi nel Pdl. Ma all'eredità come bene consegnato al futuro non ha mai
badato, convinto che la crisi sia come la morte (e lui come la vita) per
Epicuro: "Finché Silvio c'è, la crisi non esiste. Quando la crisi
arriva, Silvio non c'è". Tanti ne sono convinti, e lo incitano a
"tornare allo spirito del '94": dunque a mentire sulle tasse, di nuovo.
Chi lo incita sa quello che dice? Ha un'idea di quel che è successo fra
il 1994 e il 2011? Rifare il '94 non è da servi liberi, ma da gente che
ignora il mondo e ne inventa di falsi. Se fossero liberi e coraggiosi
non sarebbero stupidi al punto di consigliare follie. Se insistono, vuol
dire che sono servi soltanto. La loro retorica è così smisurata che
neppure capiscono la nemesi, che s'è abbattuta sul loro padrone.
di Barbara Spinelli
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