quarto stato

sabato 5 novembre 2011

Politica e transizione

Giorni addietro è apparsa sul Corsera un articolo/riflessione di Casini, leader dell'Udc, a proposito della transizione post-berlusconiana della politica italiana.
Mi sembra utile riproporre qui la risposta apparsa su L'Unità a firma Michele Prospero. Come al solito lascio a voi srotolare il filo della discussione..

Un saluto

Vladimir



Da Berlinguer a Casini, perché in
Italia il 51 per cento non basta mai

Con l’intervista apparsa sul Corriere del 4-11-11, il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini rilancia una antica questione, quella della impossibilità di governare una democrazia difficile con solo il 51 per cento dei voti. Fu Berlinguer, ormai quarant’anni fa, a gettare un’ombra di pessimismo sulla possibilità di far convivere una idea di transizione verso una società diversa con il principio di maggioranze numericamente risicate.

Quella soglia simbolica del 51 per cento, per il Pci, evocava una deteriore pratica dell’alternanza che era consueta in altri sistemi politici europei e però non appariva del tutto congeniale al progetto comunista di costruire una società altra. La parola stessa di alternanza rinviava per Berlinguer a una sterile competizione tra forze sempre più omologate inserite in un gioco di compatibilità destinato a perpetuarsi in eterno senza mai intaccare davvero gli assetti sociali esistenti. Non è certo in questo senso che ora Casini torna a riflettere sui limiti politici del 51 per cento. Nella sua analisi riaffiora una grande preoccupazione sulla persistente anomalia italiana. In Europa non solo si governa con il 51 per cento, ma costituisce un fatto del tutto fisiologico anche il ricorso a governi di minoranza. Lo stesso governo di Kohl, che ha gestito una fase storica convulsa come quella della riunificazione tedesca, contava su un solo voto di scarto. Persino in Paesi che oggi versano in gravi condizioni di emergenza (Spagna, Portogallo, Grecia) non solo non compaiono supplenze di prestigiosi organi istituzionali (che fortunatamente sono intervenuti in Italia per scongiurare vuoti drammatici di potere e per arrestare quindi una paurosa slavina) ma gli assetti bipolari e il gioco dell’alternanza non sono intaccati nella loro consueta oscillazione.

Il fatto è che nella vecchia Europa si riscontra un bipolarismo organico, cioè radicato profondamente nelle culture, nei soggetti e nelle convenzioni istituzionali. In Italia s’incrocia invece un bipolarismo solo meccanico, indotto cioè da meri ingranaggi coercitivi (come gli incentivi forniti dai premi maggioritari). Nessuna delle coalizioni vincenti nella seconda repubblica peraltro ha mai ottenuto il 51 per cento dei voti. Se a questo deficit di consenso si aggiunge pure che nelle ultime regionali circa il 40 per cento degli elettori o si è astenuto o ha votato scheda bianca e nulla, si percepisce tutta la precarietà delle basi di sostegno del sistema politico. Questa difficoltà reale nel funzionamento di un regime politico minato nel suo consenso sociale in Casini si tramuta anche in una impossibilità teorica di consolidare un bipolarismo più maturo che rivendichi in pieno l’attitudine a decidere senza evocare le supplenze di forti oligarchie sempre in agguato.

Il problema centrale di oggi non è di appurare se l’evoluzione della crisi richiederà governi tecnici, di emergenza o grandi coalizioni. In fondo, questi sono dettagli che dipenderanno da fattori al momento imponderabili. Il nodo è piuttosto quello di ridefinire uno spazio della politica in un mondo che abitualmente, così fa spesso il Corriere, contrappone le esigenze tecniche del mercato competitivo ai riti stanchi della democrazia elettorale o “della spesa”, oppure insegue, sulla scia di Repubblica, un qualche condottiero con un dono carismatico. Casini, giustamente, fa piazza pulita delle aspettative miracolistiche riposte in un qualche «improvvisato salvatore» e rivendica con forza il ruolo della politica, della analisi, della scelta controversa. Questo spazio autorevole riservato alla politica in un paese ormai sotto vigilanza però richiederebbe oggi una più chiara prevalenza della prospettiva strategica rispetto alla abilità di manovra, che certo non va accantonata.

Quando Casini sostiene che dopo il voto il terzo polo dovrà «costringere il vincitore a venire a patti» si comporta da novello partito corsaro che opera ai fianchi agitando un potere di ricatto. Le convergenze di analisi (sui limiti del meccanismo elettorale, e di questo sistema artificialmente bipolare) tra Casini e Bersani sono così palesi che sorprende (perché aggrava la crisi) la riottosità a tratteggiare una comune via d’uscita dalla melma berlusconiana.

Se le considerazioni attorno all’insufficienza del 51 per cento sono senza dubbio la parte più caduca della riflessione di Berlinguer, conserva invece ancora oggi validità la parte della riflessione relativa alla preoccupazione storica per la sinistra di impedire, nelle fasi di transizione, che il centro moderato si coaguli con la destra. Quando la sinistra ha offuscato questo nucleo di verità della cultura del compromesso storico ha favorito gravi collassi istituzionali. Ma anche il campo moderato, quando si è sottratto al dialogo con la sinistra, ha accentuato il declino di una democrazia maledettamente difficile come quella italiana.
 

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