Vi
riporto un articolo veramente bello di Barbara Spnelli pubblicato da
Repubblica che vale la pena leggere e discutere. Non aggiungo altro
Un saluto
Vladimir
Il tempo dei profeti
Il
Presidente Napolitano, che quando parla d'Europa usa veder lontano e ha
sguardo profetico, ha fatto capire nel giorni scorsi quel che più le
manca, oggi: il senso dell'emergenza, quando una crisi vasta s'abbatte
su di essa non occasionalmente ma durevolmente; l'incapacità di cogliere
queste occasioni per fare passi avanti nell'Unione anziché perdersi in
"ritorsioni, dispetti, divisioni, separazioni". Son settimane che ci si
sta disperdendo così, attorno all'arrivo in Italia di immigrati dal Sud
del Mediterraneo. Numericamente l'afflusso è ben minore di quello
conosciuto dagli europei nelle guerre balcaniche, ma i tempi sono
cambiati. Lo sconquasso economico li ha resi più fragili, impauriti,
rancorosi verso le istituzioni comunitarie e le sue leggi. Durante il
conflitto in Kosovo la Germania accolse oltre 500mila profughi, e
nessuno accusò l'Europa o si sentì solo come si sente Roma. Nessuno
disse, come Berlusconi sabato a Lampedusa: "Se non fosse possibile
arrivare a una visione comune, meglio dividersi". O come Maroni, ieri
dopo il vertice europeo dei ministri dell'Interno che ha isolato
l'Italia: "Mi chiedo se ha senso rimanere nell'Unione: meglio soli che
male accompagnati". La sordità alle parole di Napolitano è totale.
La democrazia stessa, che contraddistingue gli Stati europei e spinge i
governi a preoccuparsi più dell'applauso immediato che della politica
più saggia, si trasforma da farmaco in veleno.
Di qui la sensazione che l'Unione non
sia all'altezza: che viva le onde migratorie come emergenza temporanea,
non come profonda mutazione. Governi e classi dirigenti sono schiavi
del consenso democratico anziché esserne padroni e pedagoghi con visioni
lunghe. Non a caso abbiamo parlato di spirito profetico a proposito di
Napolitano. È la schiavitù del consenso a secernere dispetti, rancori,
furberie. Tra le furberie che ci hanno isolato c'è la protezione
temporanea eccezionale che il nostro governo ha concesso a 23.000
immigrati. La protezione è prevista dal Trattato di Schengen, ma solo
per profughi scampati a guerre e persecuzioni: non vale per i tunisini,
come ci hanno ricordato ieri la Commissione e gli Stati alleati. Non è
violando le regole che l'Italia suscita solidarietà. Può solo acutizzare
le diffidenze: un altro veleno che mina l'Unione.
Per questo vale la pena soffermarsi sul significato, in politica, dello
spirito profetico. Vuol dire guardare a distanza, intuire le future
insidie del presente, ma innanzitutto comporta un'operazione verità: è
dire le cose come stanno, non come ce le raccontiamo e le raccontiamo
per turlupinare, istupidire, e inacidire gli elettori. Di questo non è
capace Berlusconi ma neanche gli altri Stati e le istituzioni europee: i
primi perché sempre alle prese con scadenze elettorali, le seconde
perché intimidite dalle resistenze nazionali. La lentezza con cui si
risponde alle rivoluzioni arabe non è la causa ma l'effetto di questi
mali.
La prima verità non detta è quasi banale, e concerne l'intervento in
Libia e il nostro voler pesare sui presenti sconvolgimenti arabi e
musulmani. Condotta con l'intento di apparire attivi, la guerra sta
confermando il contrario: una grande immobilità e vuoto di idee. È un
attivarsi magari sensato all'inizio, ma che mai ha calcolato le
conseguenze (compresa un'eventuale vittoria di Gheddafi) sui paesi
arabi-africani e sui nostri. Fra le conseguenze c'è l'esodo di popoli.
Un esodo da assumere, se davvero vogliamo esserci in quel che lì si sta
facendo. Invece siamo entrati in guerra senza pensarci, né prepararci.
La seconda verità, non meno cruciale, riguarda l'Europa e i suoi Stati.
L'occultamento è in questo caso massiccio, ed è il motivo per cui il
capro espiatorio della crisi migratoria non è l'Italia come gridano i
nostri ministri ma - se non si inizia a parlar chiaro - l'Unione
stessa. L'evidenza negata è che da quando vige il Trattato di Lisbona,
molte cose sono cambiate nell'Unione. Le politiche di immigrazione erano
in gran parte nazionali, prima del Trattato. Ora sono di competenza
comunitaria, e la sovranità è passata all'Unione in quanto tale. Questo
anche se agli Stati vengono lasciati, ambiguamente, ampli spazi di
manovra, in particolare sul "volume degli ingressi da paesi terzi".
Risultato: l'Unione, anche perché guidata a Bruxelles da un Presidente
debole, prono agli Stati, non sa che fare della propria sovranità. Non
ha una politica verso i paesi arabi, di cooperazione e sviluppo. Tuttora
non ha norme chiare sull'asilo, sull'integrazione dei migranti, né
possiede il corpo comune di polizia di frontiera che aveva promesso. Ma
soprattutto, non ha le risorse per tale politica perché gli Stati gliele
negano, riducendo la sovranità delegata a una fodera senza spada. Per
questo alcuni spiriti preveggenti (l'ex ministro socialista Vauzelle, il
presidente del consiglio italiano del Movimento europeo Virgilio
Dastoli) propongono una cooperazione euro-araba gestita da un'Autorità
stile Ceca (la prima Comunità del carbone e dell'acciaio). Come allora
viviamo una Grande Trasformazione, e Monnet resta un lume: "Gli uomini
sono necessari al cambiamento, le istituzioni servono a farlo vivere".
Se il Trattato di Lisbona significasse qualcosa, non dovrebbero essere
Berlusconi e Frattini a negoziare con Tunisia o Egitto, con Lega araba o
Unione africana. Dovrebbero essere il commissario all'immigrazione
Cecilia Malmström e il rappresentante della politica estera Catherine
Ashton. Resta che per negoziare ci vogliono progetti, iniziative: e
questi mancano perché mancano risorse comuni. La condotta dei governi
europei è schizoide, e tanto più menzognera: gli Stati hanno avuto la
preveggenza di delegare all'Europa una parte consistente di sovranità,
su immigrazione e altre politiche, ma fanno finta di non averlo fatto, e
ora accusano l'Europa come se gli attori del Mediterraneo fossero
ancora Stati-nazione autosufficienti.
La terza operazione-verità, fondamentale, ha come oggetto l'immigrazione
e il multiculturalismo. È forse il terreno dove il mentire è più
diffuso, tra i governanti, essendo legato alla questione della
democrazia, del consenso, della mancata pedagogia, degli annunci
diseducativi. Risale all'ottobre scorso la dichiarazione di Angela
Merkel, secondo cui il multiculturalismo ha fatto fallimento. Poco dopo,
il 5 febbraio in una conferenza a Monaco sulla sicurezza, il premier
britannico Cameron ha decretato la sconfitta di trent'anni di dottrina
multiculturale. Il fatto è che il multiculturalismo non è una dottrina,
un'opinione. È un mero dato di fatto: in nazioni da tempo multietniche
come Francia Inghilterra o Germania, e adesso anche in Italia e nei
paesi scandinavi. L'operazione verità non consiste nel proclamare
fallito il multiculturalismo: se un dato di fatto esiste, fallisce solo
se se estirpi o assimili forzatamente i diversi. Se fossero veritieri, i
governi dovrebbero dire: il multiculturalismo c'è già, solo che noi -
Stati sovrani per finta - non abbiamo saputo né sappiamo governarlo.
Dire la verità sull'immigrazione è essenziale per l'Europa perché solo
in tal modo essa può osare e fare piani sul futuro. Urge cominciare a
dire quanti immigrati saranno necessari nei prossimi 20 anni, e quali
risorse dovranno esser mobilitate: sia per mitigare gli arrivi
cooperando con i paesi africani o arabi, sia edificando politiche di
inclusione per gli immigrati economici e per i profughi (la frontiera
spesso è labile: la povertà inflitta è una forma di guerra).
Tutto questo costerà soldi, immaginazione, pensiero durevole.
Comporterà, non per ultimo, un ripensamento della democrazia. Ci sono
cose che non si possono fare perché maturano nei tempi lunghi e
l'elettorato capisce solo i risultati immediati, spiega l'economista
Raghuram Rajan in un articolo magistrale sulle crisi del debito (Project
Syndacate, 9 aprile 2011). Il bisogno di immigrati che avremo fra
qualche decennio in un'Europa che invecchia è, paradossalmente, quello
che dà forza ai nazional-populisti: in Italia, Francia, Belgio, Olanda,
Ungheria, Svezia, Finlandia. Il dilemma delle democrazie è questo, oggi.
Esso costringe governanti e governati a fare quel che non vogliono:
smettere l'inganno delle sovranità nazionali, guardare alto e lontano,
insomma pensare. E far politica, ma con lo spirito profetico che vede la
possibile rovina (il "passo indietro" paventato da Napolitano) e la via
d'uscita non meno possibile, se è vero che il futuro non cessa d'essere
aperto.
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