quarto stato

mercoledì 17 settembre 2014

La parola PADRONE/2


Ciò che non mi piace della parola "padrone" è l'idea del possedere. Già accennavo nella prima parte come nella storia questo concetto lo si trovi formalizzato nelle leggi di molti stati che ne hanno in tal modo sancito uno status di legalità, tanto da diventare tra le colonne portanti di tutte le cosiddette democrazie liberali. Nella storia, però, troviamo anche intere pagine di quali e quanti orrori l'esercizio al diritto di proprità, l'esercizio del padrone, sia contrassegnato. E' su questo che voglio soffermarmi.

In un racconto che ho scritto anni addietro, intitolato "Terra Australis", narravo dell'incontro tra gli aborigeni di quell'isola-continente e il capitano James Cook, al servizio di sua Maestà, la Regina d’Inghilterra. Eccolo...

* *
Dico subito che se Japara, la Luna, era un uomo, quel popolo il Sole se lo immaginava come una donna che si svegliava ogni giorno nel suo accampamento a est. Wuriupranili, era questo il suo nome, di buon ora accendeva un fuoco, e preparava la torcia di corteccia che avrebbe portato attraverso il cielo.
Il Sole - dicevano -, prima di esporsi ama decorarsi con ocra rossa, la quale, essendo una polvere molto fine, si disperde anche sulle nuvole intorno, colorandole di rosso (l’Alba). Una volta raggiunto l’ovest, le piace rinnovarsi il trucco, colorando ancora di giallo e rosso le nuvole nel cielo (il Tramonto). Poi Wuriupranili, la Donna-Sole, comincia un lungo viaggio sotterraneo per raggiungere nuovamente il suo campo nell’est. Durante questo viaggio sotterraneo il calore della torcia accarezza le radici e induce le piante a crescere…

Fu dopo l’alba che il capitano James Cook, ignaro della credenza indigena, e forse degli indigeni stessi, arrivò nell’isola-continente. Gettò l’ancora vicino la penisola di Kurnell, presso la Botany Bay. Era il 23 luglio, anno del Signore 1770.
Due secoli prima, marinai portoghesi avvistando la stessa costa avevano gridato "terra!.. terra!", ma se ne erano tenuti lontani. Passò ancora un secolo quando navigli olandesi vi fecero sosta per rifornirsi d’acqua, frutta e selvaggina. E dovettero passarne altri cento di anni perchè quel marinaio di nome James, innamorato del mare, talentuoso cartografo, per conto della Royal Society, vi approdasse sconvolgendo per sempre l’ordine delle cose, l’armonioso universo del Popolo dei Sogni...
Si sa, chi va a lungo per mare, una volta in porto, dilapida il soldo in rum e sciala oceani di parole. Rum e chiacchiere tirano su dal pozzo i fantasmi, lavano dal petto la paura delle tempeste e dell’ignoto. Rum e fanfaronate riportano tutto in mare, servono al marinaio per sopravvivere.
Nei due secoli prima dello sbarco di Cook, di quella terra sconosciuta già se ne parlava, e tuttavia non c’erano ancora parole divenute parole, capaci di superare quel confine invisibile, ma più resistente del granito, che divide il credibile dall’incredibile, il delirirante racconto causato dalla febbri malariche e dai miraggi.
Persino nell’antichità remota se ne parlava di "Terra Australis", del continente immaginario cui Aristotele attribuì il nome, accuratamente disegnato - nel I° secolo - dal cartografo greco Tolomeo, convinto che l’Oceano Indiano fosse delimitato a meridione da un vasto continente. E se ne continuò a parlare nel Rinascimento e se ne parlò dopo, per anni e anni. Ma nessuno ebbe mai modo di arrivarci.

Anche Cook, nonostante avesse navigato per il Pacifico, giungendo a Tahiti, Nuova Zelanda e in migliaia di isole, era scettico circa l’esistenza della nuova terra e dei racconti che circolavano di taverna in taverna. Ma quando vi arrivò a bordo della sua HM Bark Endeavou e gettò l’ancora nella baia, abbracciò il fido Tupaia, l’esperto navigatore tahitiano compagno di miglia e miglia di mare e avventure.

Era passata l’alba. Nel cielo la Donna-Sole con nelle mani la torcia di cortecce correva a ovest. Cook, invece, scendendo dalla barca, fiero piantò una bandiera sulla spiaggia e, ringraziando il suo Dio, solenne dichiarò quella terra proprietà britannica. Era fatto. L’ignoto divenne noto, l’incantesimo fu rotto, bottiglie di rum e chiacchiere e fantasmi e paure delle tempeste se li riprese il mare. Otto anni dopo arrivò il capitano Arthur Phillip con la Prima Flotta. Sbarcarono mille uomini: deportati, soldati e ufficiali. Di quella terra misteriosa, immaginata e tanto cercata, ne fecero una colonia penale. Un posto per reietti e guardiani di reietti.
Quando arrivarono, nascosti ai loro occhi, sparpagliati sull’isola, c’erano 600 tribù, con oltre un milione di aborigeni che là vivevano da oltre 40.000 anni. Da sempre…

Da sempre il Popolo dei Sogni viveva là, sulla grande isola-continente. Da 1.250 generazioni e forse ancora da prima.
Originari dell’indocina, si spinsero in quelle lande a meridione traversando con imbarcazioni rudimentali i mari della Sonda o raggiungendo, sempre via mare, la Nuova Guinea e percorrendo poi a piedi lo Stretto di Torres, territori che poi divennero mari e oceani, quando il tempo era "tempo senza tempo", era "Alcheringa", e gli antenati dormienti se ne stavano sotto la crosta della terra, in attesa fosse Tjukurapa, il "tempo del sogno"; quando risvegliatisi emersero al cuore di un popolo e vennero per modellare il paesaggio, dando origine a tutto, agli esseri viventi, come alle catene montuose e ai torrenti.

Eppure nessuno li vide. Addirittura i sudditi di Sua Maestà, attribuendosi il dominio del sud della grande isola-continente addussero - in punta di diritto - fosse quella "terra nullius", territorio di nessuno, disabitato, privo di legittimi possessori. Terra su cui poter mettere le mani, di cui era possibile far man bassa, dove, istruito dalle leggi dello scambio (e il dare e l’avere significava solo prendere), s’eri furbo accumulavi ricchezza, perchè il Popolo dei Sogni non conosceva recinti, né atti notarili. Per cinquantamila anni mai furono a loro necessari muri e barriere e cancelli e dogane e giudici e soprattutto parole, le parole del possesso, quelle che distinguono "il mio dal tuo"…

Cos’è mio? Cos’è tuo? Cos’è, infine, nostro?

Il Popolo dei Sogni conosceva solo alfabeti senza possesso, sapeva ogni cosa creata essere il sogno di un desiderio. E la terra qualcosa che li collegava al tutto, essi stessi frutto di un sogno delle potenze ancestrali, incarnati perchè quel sogno vivesse e a quel sogno potessero un giorno tornare.
Loro non possedevano. Non potevano, essendo un pensiero estraneo al loro pensiero. Per questo non avevano le parole del possesso. E poi, come si faceva a possedere la terra, un collegamento spirituale?

…"Noi non possediamo la terra, la terra ci possiede; la terra è nostra madre, e nostra madre è la terra". "La terra è il punto di partenza, dove tutto è cominciato e dove andrò". "La terra è il nostro alimento, la nostra cultura, il nostro spirito e identità".

Poi, passate cinque lune dallo sbarco, si videro, si incontrarono.

Nel cielo Wuriupranili, la Donna-Sole, prossima a rifarsi il trucco, ormai stringeva nella mano solo un tizzone della torcia di cortecce. Calmo e pieno di spume biancoramate il mare nasceva e moriva con lenti sospiri sulla battigia, mentre le scialuppe, ormeggiate vicinissime alla riva, ondeggiavano pigre tra gli scricchiolii del fasciame e un vestito di lunghe ombre sfilacciate. Più in là, oltre la barriera corallina, in acque profonde, la sagoma dell’Endeavou dominava la baia.

Uomini nudi dal corpo dipinto uscirono fuori dalla boscaglia. Le sentinelle di Cook se li videro comparire all’improvviso davanti. Superata la sorpresa, presero a urlare. Un coro di "chi va là! " correva da un punto all’altro dell’improvvisato campo, incespicando ora sulle facce stupite dei compagni, ora cozzando su altre voci che, con più velocità e concitazione, chiamavano all’allerta la comunità sparpagliata sulla spiaggia.

Nel generale parapiglia qualcuno rovesciò un pentolone che bolliva sul fuoco, altri calpestarono compagni addormentati, altri ancora, imbracciate le armi, s’adunarono là dove caporali e sergenti strepitavano all’ossesso. Richiamato dalle voci, lo stesso Capitano si precipitò fuori dalla tenda e a lunghe falcate si diresse nella direzione dove tutti i suoi sottoposti correvano.
Dinanzi a lui il primo ufficiale gridava: "Largo, fate largo!". A guardargli le spalle lo seguiva Tupaia il navigatore tahitiano.

Ben presto il terzetto arrivò dove il mucchio di armati e marinai era ormai un vero e proprio muro schierato a difesa dell’accampamento. A quel punto fu lo stesso Cook a ordinare: "Uomini largo, fate largo!". Improvvisamente scese il silenzio, la muraglia si divise in due, lasciandogli il passo. Ormai erano faccia a faccia.

L’uno di fronte all’altro, quel 29 luglio non c’erano solo uomini, ma mondi. La progenie della più antica civiltà della terra s’incrociava con i discendenti del mondo venuto dall’altra parte del mondo, arrivati là con un preciso scopo, ingrandire l’impero, decretando la potenza della Regina, la superiorità su esseri abituati a vivere senza una casa, senza coltivare, senza allevare animali, senza scrivere le proprie leggi. Selvaggi privi di una cultura.
Quel giorno, due corde sino ad allora distinte, si annodarono, divennero una, e quell’una divenne cappio e poi catena, strumento di tortura e di morte. Questo è scritto nel libro dei vinti.

Tupaia ora precedeva tutti. Sapeva toccava a lui parlare. Urlando a pieni polmoni disse il suo nome e ruotando il busto indicò con le braccia Cook.
A distanza di venti metri i dieci uomini dipinti lo guardavano curiosi e, lanciandosi occhiate l'un l'altro, guardavano Cook e l’intero schieramento. Nella sua lingua Tupaia, gesticolando, ripeté le parole di prima, indicando di nuovo il Capitano. Gli uomini dipinti presero a parlare tra loro. Dopo un po’ uno si fece avanti. A piccoli passi s’avventurò in quella terra di nessuno createsi tra i due schieramenti.

Era snello, piuttosto giovane. Portava una fascia di stoffa rossa legata attorno alla testa su cui svettava un piumaggio verde e blu. Aveva la faccia e gli occhi incorniciati di bianco e ornamenti dipinti su collo, petto e braccia e poi sulle gambe. Due linee sinuose finemente inframmezzata da piccoli punti e altre figure geometriche, come il disegno della pelle del serpente. Alla caviglia un nastro, anche quello rosso, come la fascia che gli cingeva la fronte. Tra le mani una lunga canna di bambù dalla punta acuminata e in vita una cintura di capelli intrecciata che reggeva il boomerang a altri attrezzi utili nella caccia.

Fatto qualche passo, si fermò volgendo la testa ai suoi. Poi, più deciso, riprese a camminare. Giunto a ridosso di Tupaia, s’arrestò di colpo. Fu allora che Cook si fece avanti ordinando al navigatore di parlare, cosa che il tahitiano fece. Ma visto che l’uomo dipinto continuava a tacere, il capitano ruppe gli indugi e col tono di chi è aduso al comando, disse: "Sono il capitano James Cook, al servizio di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra"…
L’altro, dapprima immobile, prese a fissarlo intensamente negli occhi e poi, attirato dal codino di capelli che gli scendeva sulla nuca, mosse lateralmente un passo verso quell’uomo che lo sovrastava abbondantemente in altezza. Al che il primo ufficiale, temendo un assalto, sguainò la spada pronto a lanciarsi e anche i soldati, armato il cane del fucile lo puntarono, pronti a far fuoco. Tempestivamente Cook alzò un braccio, ordinando a tutti: "Fermi!".

Fu allora che l’uomo dipinto si avvicinò e allungando una mano gli toccò il viso, sfiorando con le dita quella pelle chiara mai vista prima d’allora e i capelli, sopra la fronte e dietro le orecchie, sino ad afferrare il codino. Ma ritirò subito la mano, perchè al contatto avvertì netta l’assenza di vita in quella strana compatta capigliatura liscia e bianca. Poi mosse un passo indietro e senza pronunciare parola di scatto voltò la schiena all’uomo di Sua Maestà la Regina, dirigendosi veloce verso i suoi.
Appena li raggiunse, senza fare il benché minimo rumore, sparì assieme a loro, inghiottito dalla boscaglia. E arrivati che furono alle capanne, seduti attorno al fuoco, dove li attendevano gli anziani del piccolo clan, presero a parlare a turno, intervallando il raconto di ciascuno alle note del didgeridoo, la canna sonora ricavata da un sottile tronco di eucalipto, compagna del canto del creare.

Quando fu il momento di Mamboo, di colui che aveva sfiorato con le dita l’uomo bianco, un oceano di stelle aveva sostituito nel cielo la torcia della Donna-Sole. Guardando prima il fuoco e poi uno ad uno i suoi compagni, Mamboo disse: ”Questa mano ha toccato la morte”.

Quella notte, mentre Japara, l’Uomo-Luna, mostrava al mondo uno spicchio della sua faccia, sulla piccola tribù totemica il sogno degli antenati sognò il buio, e il buio il nero, e il nero la nerezza che del nero è sogno da cui non si torna. Sogno senza desiderio...
(continua).

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