quarto stato

sabato 23 agosto 2014

Tutto per un attimo

Questo testo è presente nell'antologia "Racconti scritti con i piedi", ed. ilmiolibro.it, un titolo ironico nel quale diversi autori e autrici si cimentano in brevi narrazioni aventi i piedi cooprotagonisti delle storie, alla pari dei diversi personaggi.

Tutto per un attimo



       Come ogni mattina alle sette in punto la sveglia cominciò a gracchiare sul comodino. Da sei mesi, giorno dopo giorno, nella spoglia stanza da letto situata al terzo piano del condominio ubicato alla Garbatella, in Largo Randaccio, XII municipio di Roma, la scena era sempre la stessa: lui, ancora rannicchiato in posizione fetale, che appena partiva il suono dell’aggeggio elettronico dopo essersi girato e rivoltato da una parte e dall’altra del letto, prima di scivolare fuori dalle lenzuola si stropicciava gli occhi con tutte e due le punte delle dita, quasi volesse ripulirere con quel gesto energico il sonno restante nelle orbite, la colla che impediva alle palpebre di aprirsi. A quel primo rituale ne seguiva un altro, il braccio che si allungava verso il comodino e la botta, col palmo aperto, sulla suoneria dell’orologio, giusto in tempo per stoppare il secondo insopportabile gracidio. E infine la mano che afferrava il pacchetto di Gitanes senza filtro e la scatolina di svedesi. Una scena che sembrava, nell’ossessiva ripetitività dei gesti, cronometrata e mandata a memoria in ogni sua parte, e forse lo era date le abitudini e le manie di Massimo di tenere ogni cosa, anche la più banale, rigorosamente sotto controllo.
Spenta la sigaretta, del tutto sveglio, seduto sulla sponda del letto, dopo aver acceso la abat-juor, con movimenti altrettanto misurati prendeva a vestirsi. Generalmente preferiva indossare pantaloni senza cintura, con l’elastico in vita, alternando alle pratiche magliette senza collo camice di tela. Fu così anche quella mattina.
Il suo era un abbigliamento volutamente anonimo, simile al modo di vestire di milioni di persone della sua età. E anonima era pure la sua faccia, priva di barba o di baffi, rassicurante e senza alcun segno che desse nell’occhio o che attirasse su di lui l’attenzione degli altri. Anonima, da perfetto uomo della porta accanto.
      Finalmente vestito, ma ancora senza le scarpe ai piedi, andò in cucina e poi in bagno. Ne uscì sospirando il caffè che già brontolava nella macchinetta. Quando finì di bere le lancette dell’orologio puntavano le otto, in perfetta sincronia con l’ora prefissata per il ricevimento del segnale. Difatti, appena accese il cellulare, come previsto, arrivò il bip che gli annunciava l’arrivo di un messaggio. Aprì la comunicazione e lesse: - “Tutto bene, è appena entrato in macchina”. Dopo quindici minuti il bip risuonò ancora: - “Ha lasciato l’auto e sta entrando nel palazzo”.
Soddisfatto annotò sulla Moleskine, esattamente nella riga di un prospetto composto da un numero di celle  equivalenti ai giorni del mese da lui in precedenza disegnato, la data, una faccina sorridente tipo emoticon e due minuscoli +.
Esaurita ogni altra incombenza, dopo aver indossato le scarpe e sbirciato l’orologio, si affrettò a uscire di casa diretto al tabacchi di Via Persico, la rivendita di sigarette e giornali lontana suppergiù un chilometro da dove abitava. Secondo i suoi calcoli, a passo sostenuto, tra andare e tornare, non ci avrebbe impiegato più di sedici minuti. In tempo, comunque, per accogliere Jole e Michele, i due responsabili dei nuclei impegnati nell’operazione in corso, e come lui membri della direzione strategica, attesi alle nove e trenta in punto nel suo appartamento, coi quali avrebbe definito la scaletta da presentare alla riunione con gli altri membri dell’organizzazione, prevista prima di mezzogiorno.

       Alle nove e trentatrè arrivò Michele, Jole sette minuti dopo. Seduto al tavolo di cucina Massimo guardando negli occhi l’uomo e la donna sbuffò provocatoriamente una nuvola di fumo sulle loro facce. Senza smettere di fissarli aprì la sua agenda nera, tamburrelando nervosamente le dita sul tavolo. Poi, secco, sbottò: «Compagni, ignorare la puntualità significa farsi beffe della prima regola del nostro agire politico, la sicurezza. Non ne convenite?».
    «Scusa Massimo, è colpa del mio orologio, pensavo di essere in orario e invece…» disse rispondendo con un filo di voce Michele che fu interrotto da Jole la quale, in tono meno ossequioso, ribattè scocciata: «Sì, è vero, sono arrivata tardi e mi spiace, l’autobus sembrava una lumaca, lo sai anche tu, il traffico di mattina è micidiale. Per spostarsi da una parte all’altra della città è un’impresa e di autobus, per venire qua, ne ho presi due». 
      «Basta, non voglio ascoltare altro. Sorvoliamo, di tempo ne abbiamo già sprecato troppo. Sappiate però che su questo vostro atto di indisciplina farò, come è mio dovere, cenno nella riunione della direzione strategica. Dunque…vi ho convocati per definire gli ultimi dettagli dell’operazione e valutando i rapporti che mi sono pervenuti direi superati anche gli ultimi ostacoli in ordine alla regolarità degli spostamenti del Procuratore Generale. Avete altri elementi su cui dovremmo discutere?».
«Senti… riguardo al ritardo» aveva iniziato a dire Jole che Massimo la fulminò repentino: «Mi pareva che questa faccenda fosse ormai argomento chiuso!».
«E no cazzo, tu non puoi! Non lo trovo giusto. Prima mi paragoni a una che disattende la sicurezza e poi liquidi la cosa con quel paternalistico “sorvoliamo” rinviando la questione alla direzione strategica per indisciplina. Trovo sia assurdo! Ho ammesso il mio ritardo e ti ho chiesto scusa, anche se…».
«Anche se cosa?» replicò Massimo aggrottando gli occhi.
«Che per un attimo, il tempo di una sigaretta, vuoi innestare un processo. Può capitare a chiunque un momento di involontaria defaillance».
«E tu Michele niente da dire? La tua suscettibilità è stata ferita? Dai, coraggio… parla!» lo invitò ironico Massimo.
«No, non ho niente da dire, a me sta bene così!» rispose l’uomo.
«Allora, esimi compagni, ve la dico io qualcosa. Nei tuoi tre minuti, caro compagno Michele, poteva accadere di tutto. Per esempio un’improvvisa irruzione dei corpi speciali venuti a conoscenza del nostro incontro. Se tu fossi stato puntuale avresti dalla strada notato i preparativi della loro irruzione, avvertendomi affinché io avessi il tempo di saltare dal terrazzo sul tetto della casa vicina e da lì defilarmi seguendo la via di fuga di cui vi ho parlato nell’incontro della scorsa settimana. E se questa eventualità poteva accadere nei tre minuti di Michele, nei tuoi dieci, compagna Jole, evito persino di raffigurare ipotesi. In clandestinità gli attimi sono tutto, c’è la vita e la morte, la galera e la possibilità di continuare la lotta».
Jole, in evidente imbarazzo nel silenzio calato nella stanza, reagì accavallando le gambe. Michele, invece, sembrava una statua di gesso tanto si era irrigidito. Le parole di Massimo erano più che ragionevoli, e lo sapevano. Bastava un piccolo errore, un’indecisione, la perdita di concen-trazione perché saltasse tutto.
Quando si guardarono, Jole abbozzò quello che nelle sue intenzioni doveva essere un sorriso, ma che in realtà gli altri, forse per uno strano movimento dei suoi muscoli facciali, percepirono come una sforfia di sofferenza. In tre anni di quella vita condotta consapevolmente al limite, fuori dai canoni di una normalità rifiutata per scelta, era la prima volta che veniva rimproverta da un membro dell’organizzazione. Il nucleo Zero era la sua famiglia, tutto il suo mondo. Lei, figlia di operai, terza di tre fratelli, una laurea in Scienze politiche in tasca, la vita di prima non se la ricordava nemmeno. Certe notti, in sogno, si rivedeva bambina a Milano, quando giocava rincorrendosi con il fratellino di un anno più grande, sul lungo ballatoio del secondo piano o nel cortile della casa a righiera dietro i Navigli. Certe altre, soprattutto in prossimità di azioni dove si sarebbe magari sparato, in sogno le apparivano i corridoi della facoltà affollati di studenti e colleghi del dipartimento dove aveva a lungo prestato servizio. Eppure, nonostante la durezza e la tensione, non aveva mai smesso l’idea che un giorno la clandestinità sua e degli altri potesse finire, restituiti a un mondo più giusto, senza più sfruttati, dove sarebbe stato bello vivere. In fondo al suo cuore era restata la bambina romantica di un tempo e la donna conquistata agli ideali di un nuovo umanesimo. Per questo si era sentita ferita quando Massimo l’aveva accusata di indisciplina rivoluzionaria. Lei non aveva colpa: “maledetto autobus e maledetto traffico” pensò scrutando Massimo con la coda dell’occhio. Anche se lui aveva ragione, lei mai e poi mai avrebbe fatto pesare su un altro compagno un giudizio così netto e pesante. “Gli sarebbe bastato un gesto simbolico, che so picchiettare con un dito sull’orologio e farla finita. Ma lui no… lui è il capo, l’intransigente!” pensò ingoiando una palla di saliva accumulata in bocca.

Al termine della riunione di mezzogiorno, ogni membro della direzione strategica sapeva cosa fare e quali ordini avrebbe impartito agli uomini delle colonne impegnati nell’operazione. L’appuntamento per tutti era stato fissato per il giovedì successivo. Operativamente erano quattro i nuclei impegnati più direttamente, mentre altri due erano stati designati d’appoggio, come staffette lungo l’itinerario che avrebbe percorso l’auto principale e il corteo della scorta del Procuratore Manni. Al momento d’accommiatarsi, Jole stringendo la mano di Massimo disse con voce ferma due parole su cui aveva rimuginato per l’intera mattinata: «Manteniamoci umani!».

Restato solo, Massimo provvide a eliminare dalla stanza qualsiasi traccia dei cinque partecipanti all’incontro. Bruciò i fogli d’appunti, ripulì con cura i posacenere e armato di scopa spazzò accuratamente il pavimento. Dopo aver richiuso i sacchetti dell’immondizia, passò il mocio, allungando il lavaggio anche sul pavimento del minuscolo corridoio d’ingresso. Poi, aprì la porta e scese lentamente le scale. Chiunque l’avesse notato, avrebbe semplicemente ricordato un uomo diretto a depositare i sacchetti che stringeva nella mano nei bidoni della spazzatura posti all’esterno del condominio.

All’imbrunire di mercoledì chiuso il piccolo trolley dove aveva riposto i suoi effetti personali, lasciò la casa. A quell’ora nessuno l’avrebbe notato scendere le scale. Prima di uscire dal portone, infilò nella cassetta per le lettere le chiavi dell’appartamento. Percorso mezzo chilometro si fermò alla fermata del sessantasei, il bus  diretto in centro città. Scese alla fermata in zona Piramide e si affrettò a raggiungere, come un qualsiasi turista, la Pensione Flavia, dove avrebbe trascorso la notte.
Seduto in poltrona consumò i due panini che si era preparato nell’altra casa scorrendo le immagini del telegiornale, seguendo sia l’edizione nazionale sia quella regionale. Stufo si distese sul letto e iniziò la lettura di una rivista. Si soffermò su un articolo intervista di un esponente legato alla cooperazione internazionale, incuriosito dal titolo:  - “Per quanto difficile, manteniamoci umani”. Curiosità accresciuta perché le parole riportate in evidenza facevano il paio con quelle pronunciate da Jole due giorni prima, al termine della direzione strategica. Ne sorrise, ma non potè fare a meno di ripensare alla discussione con la donna e alle decisioni assunte, su sua proposta, dall’organismo politico nei confronti dei due compagni, censurati per negligenza. – “Mah, forse sono stato troppo duro, ma le regole sono regole, e vanno rispettate”. Finito l’articolo si addormentò profondamente.

Alle sette in punto Massimo era già in strada. Da lì a poco sopraggiunse in macchina Valerio. In cinque minuti raggiunsero gli altri compagni già appostati vicino la casa del Procuratore. Appena l’auto con a bordo Massimo parcheggiò, uno degli occupanti delle altre macchine ne discese e si avvicinò per conferire. «Qui tutto a posto, non abbiamo notato alcun movimento sospetto».
«Bene, ormai ci siamo, mancano sette minuti. Mi raccomando, si parte al mio segnale. Riferiscilo agli altri, al mio segnale e che nessuno prenda iniziative personali. Va e buona fortuna a tutti!» disse Massimo con un tono da cui non traspariva alcuna alterazione emotiva.
In orario perfetto, allo scadere del settimo minuto, da dietro la curva comparve la prima auto di scorta seguita a ruota dalla macchina che avrebbe ospitato il Procuratore e dall’altra che chiudeva il corteo. In contemporanea si senti il rumore di una serratura che scattava e il breve cigolio della porta d’ingresso della villetta che si spalancava. Ne uscì una donna con un bambino tenuto per mano e subito dopo apparve anche il Procuratore Manni. I tre percorsero affiancati i pochi metri che separavano il giardino dalla strada, sino al cancello della villetta. Già in posizione fuori dalle auto gli uomini della scorta aspettavano solo che il Procuratore varcasse il cancelletto. Analogamente, pronti a farsi avanti, i componenti del nucleo Zero appostati sul marciapiedi di fronte alla casa. Loro, secondo il piano messo a punto, sarebbero intervenuti appena il capo scorta avesse fatto entrare l’obiettivo in auto. Era questione di secondi: né un attimo prima, né un attimo dopo. Sul sincronismo, con maniacale pignoleria, Massimo ci aveva lavorato a lungo.

Aperto il cancelletto, il Procuratore, per raggiungere l’auto della scorta, doveva discendere solo una doppia rampa di quattro gradini, alla base dei quali l’attendeva, pistola in pugno, il maresciallo De Blasio, capo di quel drappello di carabinieri comandati a proteggerter l’importante magistrato. Fu allora, quando aveva già calpestato l’intera prima rampa, che il piccolo Fabio prese a strillare: «Papà… papà non mi hai dato il bacio, papà voglio il bacino!».
Nonostante i tentativi di rabbonire il bambino, la signora Marta richiamò il marito: «Carlo, ti prego… accontentalo» e rivolta al capo scorta fermo in attesa sul marciapiede: «Maresciallo ci scusi, solo il tempo di un bacino».
Tornato sui suoi passi il Procuratore si fermò fuori dal cancelletto. Marta sollevò il piccolo Fabio affinchè il papà potesse baciarlo. Per riuscirci il Procuratore, sorreggendosi alle sbarre del cancelletto, dovette sollevarsi sulla punta dei piedi per assestare sulle gote del figlio il bacio richiestogli.
Sull’altro lato della strada, protetto dietro un tabellone pubblicitario, Massimo osservando la scena del Procuratore issatosi sulla punta dei  piedi per baciarte il figlio, fu rapito da un ricordo che lo riportò indietro a quando lui era bambino. Una scena alquanto simile a quella cui aveva assistito, con suo padre che per baciarlo si issò anch’egli sulla punta dei piedi, suscitando una gran risata di mamma Luigina e della sorella Erminia.
Perso in quel ricordo, il capo del nucleo Zero non s’accorse del subitaneo ritorno del magistrato verso l’auto di scorta. E dato che l’ordine di intervento doveva darlo lui, nessuno del gruppo si mosse quando, chiuso lo sportello, l’auto dei carabinieri ripartì dileguandosi a velocità sostenuta.
Conscio di quanto l’aspettava, si lasciò scappare tra i denti alcune parole: «Tutto per un attimo, un maledetto attimo!...».
Vladimiro Forlese      

Nessun commento:

Posta un commento