quarto stato

domenica 24 agosto 2014

Scintille

Eccovi un nuovo racconto breve. Insieme ad altri cercherò il modo di pubblicarli. Il quadro d'insieme vorrei fosse un "occhio gettato sul minuto mondo quotidiano". Vedremo, per intanto buona lettura!

SCINTILLE



Quando il Frecciabianca delle diciannove e quarantacinque superò l’ultimo scambio prima dell’ingresso in stazione, Antonio Mirabella, macchinista da oltre vent’anni, pugliese di origine  ma bolognese per necessità, s’accorse che il treno era troppo veloce per effettuare l’avvicinamento al binario, e la sosta prevista, senza dover innestare la frenata d’emergenza. Perso in uno dei suoi soliti soliloqui, non aveva visualizzato per tempo la spia che segnalava il malfunzionamento del rallentatore automatico. Mai, nella sua lunga e onorata carriera, era incorso in una negligenza così grave. E che avesse la testa per aria se ne accorsero anche i colleghi di lavoro.

Problemi d’amore, come diceva lui per tagliar corto coi compagni, i quali, vedendolo da qualche giorno pensieroso,  scambiandosi occhiatine furbe, gli chiedevano provocatoriamenmte se la signora moglie, religiosa all’ossesso, avesse già iniziato la novena alla Madonna esiliandolo dalla camera da letto. Quella sera, in verità, più che su certi suoi dissidi coniugali che lo tenevano in apprensione, stava riflettendo del mondo e della mancanza d’amore. Questione da massimi sistemi, che tradotta alla sua portata equivaleva, perché gira che gira era quella la fissa, all’immancabile domanda: si può stare senza una donna? In particolare non riusciva a capacitarsi delle parole di un suo collega col quale aveva bevuto un caffè prima di salire sul treno.

 «Io ne faccio senza e vivo bene, anzi benissimo!» gli aveva detto quello ridendo.

Come poteva essere che si potesse vivere bene così, stava chiedendosi raspando con le dita tra i pochi capelli superstiti, che s’accorse d’aver superato il punto in cui doveva rallentare il convoglio.

Urca boia… dove ce l’ho la testa. Mannaggia a me e mannaggia alle donne!” si disse armeggiando in preda al panico sul quadro di comando.

E mannaggia a quel salame… dimmi tu se non è da strampalati, vivere così, senza scintille!”.

In prossimità del binario, pigiò sul pulsante rosso sul quale campeggiava la scritta “freno d’emergenza” e sporgendo la testa fuori dal finestrino pensò: Che Dio me la mandi buona!”.

Allo sfilare del treno, le persone in attesa nella stazione o sui marciapiedi limitrofi al terzo binario dovettero coprirsi le orecchie con tutte e due le mani nell’attimo che il macchinista azionò i freni del convoglio. Sotto i loro piedi tremò la terra, ma sorte peggiore toccò ai malcapitati che se lo videro sfilare davanti respirando a pieni polmoni l’acre odore di ferro incandescente.

Feroce, come l’urlo di un animale mortalmente ferito, l’assordante stridìo dei metalli inondò di scintille la scialba litania della sera, sospendendo per un attimo la vita di ciascuno. Una scena inquietante, sinistra, luciferina, che ricordava certe epiche copertine della Domenica del Corriere illustrate da Walter Molino, con il locomotore trasfigurato nel mostro d’acciaio che, imbrigliato nella sua corsa impetuosa, ruggisce e vomita sugli uomini lampi di fuoco prima di essere vinto.

Affatto epico, invece, fu ciò che dall’esterno del treno nessuno potè udire e vedere, vale a dire il coro di spaventati oh! gridato all’unisono dai passeggeri e le conseguenze che la dura e alquanto improvvida frenata comportò per quelli nelle carrozze già in  fila, uno dietro l’altro, e pronti a scendere, sballottolati prima in avanti, poi indietro e ancora in avanti come tanti pupazzi privi di volontà.


Insonnolito dal viaggio, il professor Valerio Ortese, quarantacinquenne docente universitario e scrittore di un certo successo, aveva da qualche secondo preso posto nello stretto corridoio che separava la doppia fila di sedili. Stufo del viaggio, non vedeva l’ora di scendere. Per questo, contravvenendo alle sue abitudini, contagiato dalla fregola che coglie, in prossimità delle stazioni, i viaggiatori prossimi ad abbandonare le vetture, lasciò in anticipo il suo posto. Quando scoppio il finimondo, era intento a sbirciare fuori dal finestrino. Dapprima barcollò come tutti, ma non avendo alcun appoggio a portata di mano, per la brusca frenata volò in avanti assieme al trolley che stringeva con la mano destra, planando col petto prima addosso a un anziano signore e, poi, di sponda, con la faccia dritto sulla schiena di una giovane donna. Nel secondo violento urto, fu il suo naso ad avere la peggio, schiacciato tra la montatura degli occhiali e la scapola dell’incolpevole passeggera su cui era atterrato.  

Piegato sulle ginocchia, dolorante prese a cercare con le palme delle mani gli occhiali finiti sotto qualche sedile o tra i piedi di chi gli stava attorno. Rialzatosi, dopo aver con disappunto constatato l’irreparabile danno alla montatura e ad entrambe le lenti, mortificato profuse le sue scuse ai due occasionali compagni di viaggio su cui era malamente ruzzolato. Il vecchio, sdegnato per il colpo subito, rispose emettendo uno stizzoso grugnito. La donna, invece, guardandolo negli occhi,  forse con l’intento di sdrammatizzare sull’accaduto, scoppiò a ridere. Però, vedendo che lui era rimasto serio, appena la fila si mosse, accostandolo gli offrì il braccio.

«Scusi, prima sono stata sfacciata, non volevo offenderla, ma lei era così buffo con la mano sul naso e i capelli tutti per aria. Venga, si appoggi a me, mi sembra ancora intontito dalla botta. Ce la fa a scendere?».

«Sì, credo di sì. Fa male, forse servirebbe del ghiaccio. Spero non sia rotto».

«Ma no, è solo una brutta botta, se fosse rotto colerebbe sangue come una fontana e, in più, avrebbe il naso storto».

«Senta, vorrei pregarla di un’altra gentilezza…».

«Dica, senza problema. Di che si tratta?».

«È che senza occhiali sono perduto. Mi guiderebbe nel discendere i gradini? Ho paura di mettere un piede nel vuoto e…».

«Non si preoccupi, l’aiuto io. Scendo e la tengo per mano».

«Scusi ancora, sono proprio un imperdonabile zotico, non le ho nemmeno chiesto se lei si è fatta male, se le duole la schiena».

Rapita dai modi eleganti e dall’eloquio forbito dell’uomo lei, intenerita dalla sfortuna in cui era incappato quel bel cucciolone ferito, ignorando la leggera fitta di dolore che le pizzicava la spalla, rispose: «Niente di che preoccuparsi, sto bene. Ecco… siamo arrivati all’uscita. Adesso io scendo. Appena sono giù, lei mi passa la valigia che poi io le prendo la mano per aiutarla a scendere».

Poggiati i piedi a terra lui, rivolgendosi alla giovane donna, disse: «Non so come avrei fatto senza il suo aiuto. Spero un addetto della stazione mi accompagni a trovare un taxi».

«Oddio!… pensavo avesse qualcuno, una moglie, un amico, che l'aspettava qui al binario o fuori della stazione».

«Magari… non ho nè moglie nè amici. Sono a Trento solo di passaggio, per lavoro. Domattina ho un incontro all’università con docenti e studenti del Dipartimento di Sociologia della Letteratura e nel pomeriggio dovrei ripartire per Roma».

«Allora lei adesso sarebbe andato in albergo, e così?».

«Sì, mi hanno fissato una stanza all’Hotel America e prenotato un tavolo in un ristorante nei dintorni dell’hotel. Il nome l'ho appuntato nella mia agenda».

«Ho capito…» stava dicendo la giovane donna che lui intervenne.

«Scusi se la interrompo, almeno prima di lasciarla permetta io mi presenti. Sono Valerio Ortese, vengo, come avrà intuito, da Roma che è anche la città dove abito e lavoro».

«Sì, certo… piacere, io mi chiamo Laura Calliari, vengo da Verona, ma abito e lavoro qui a Trento. Scusi signor Ortese, lungi dall’essere invadente, l’albergo dove ha prenotato è vicinissimo alla stazione. Per arrivarci non le serve il taxi. Se non ha difficoltà a camminare l’accompagno io. Mi sa che è meglio, altrimenti su questo binario lei ci fa notte aspettando arrivi qualcuno ad aiutarla».

«Signorina Calliari… giusto? Scusi, io per i nomi ho qualche difficoltà, è sicura di non scombinare i suoi programmi? Mi seccherebbe approfittare. Magari è stanca e certamente ci sarà qualcuno ad attenderla per cena».

«Non si preoccupi, lo faccio volentieri e se proprio ci tiene a saperlo, non ho nessuno in pensiero per me. No! le sto dicendo una bugia, qualcuno ci sarebbe, si chiama Ozzi, il mio gatto, però stasera è a casa di amici, coccolato e viziato dai loro bambini».

«Allora faccia la buona Samaritana sino in fondo: mi accompagna prima in albergo e poi – uh maledetto naso, se fa male! –  e poi, le dicevo, si ferma a cena con me. Non vedo altro modo per sdebitarmi con lei. Su, signorina Laura, spero non le dispiaccia se l’ho chiamata per nome, mi dica di sì, mi permetta di essere all’altezza della sua gentilezza!».

Indecisa se accettare o meno l’invito, Laura guardandolo rispose: «Mi dia qualche secondo per pensarci, intanto raggiungiamo l’uscita. Nell’atrio della stazione ci sono i telefoni, almeno una chiamata ai miei amici devo farla. Sa, con un gatto non si sa mai come vanno le cose».

«Bene, sono però certo che i suoi amici non le diranno di no. A proposito, ha fatto caso a quante scintille sono volate in aria quando il treno ha iniziato a frenare?».

«Eccome, sembrava di essere nell’officina di un fabbro!» rispose la donna.

«Peccato per tutto quello sbattimento e il mio ruzzolone. Era da tanto che non mi capitava di vedere una tale quantità di stelline» disse Valerio allusivo stringendo con la mano il braccio della donna.

Risalito il sottopassaggio, appena sbucarono nell’atrio, Laura si fermò di botto.

«Scusi, io andrei a telefonare. Mi aspetti qui, ci metto un momento» e, fatto qualche passo, voltandosi aggiunse con un gran sorriso: «Solo un attimo!...».

Sono certo che accetta… è un po’ giovane, ma che importa… e che bella, due occhi meravigliosi!” stava dicendosi il professore che, proprio a due passi da lui, un gruppo di persone, tutti con addosso la divisa da ferroviere, anche loro risaliti dal sottopassaggio, presero a conversare animatamente interrompendo il suo fantasticare sui possibili sviluppi della serata.

«No, un bel rapporto a quel fesso non glielo leva nessuno, ma come si fa?» disse uno degli uomini.

«Il collega di Bologna mi ha detto che sta attraversando un momento difficile, si sarà distratto…» aggiunse un altro.

«Distratto? Ho fatto un capitombolo che lo sa solo Dio come non mi sono rotto il collo!» ribattè il primo.

«Senti, pare il problema sia sua moglie…» disse il secondo uomo che aveva parlato.

«Che fa, gli mette le corna? Mi sembra il minimo, gran pezzo di cornuto!» imprecò il primo.

«E’ proprio il contrario, sembra che non gliela dia più, per questo è così fuori di testa» precisò il secondo.

«Oddio, poveretto, deve averle piene da scoppiare le sacchette! A giudicare da come è entrato in stazione e dalle scintille, tira aria di tempesta…» disse ironico il terzo ferroviere accompagnando le parole al gesto dell'ombrello e a una gran risata.

Al professore sfuggì il resto della conversazione avendo il terzetto ripreso a camminnare. Quel poco, però, che aveva sentito gli mise addosso un non so che di temerario. A lui la sfortunata disattenzione del macchinista gli stava invece propiziando una bella occasione. – “Scintille o non scintille tocca a me ora saper accendere il fuoco. Peccato per il naso” si disse massaggiandosi la parte ancora dolorante.

«Eccomi, professore, tutto a posto: il gatto è tranquillo, sono libera. Accetto il suo invito!» esclamò Laura ondeggiando la testa riccioluta e gli occhi luminosi, accesi dalla contentezza.

«Non sa quanto mi fa felice e, la prego, non mi chiami professore. Le sembro così vecchio da voler sottolineare le distanze? Suvvia, mi chiami Valerio e… se è d’accordo, quando saremo a cena, le chiederò di brindare. Non indovina  a cosa?» disse lui euforico.

«Non saprei… Valerio. A cosa vorrebbe brindare?» domandò lei con una punta di imbarazzo nella voce e le palpebre ballerine.

«Alle scintille, alla pioggia di stelle che mi ha permesso di conoscerla. Venga, mia salvatrice, venga…evviva le scintille!».
Vladimiro Forlese

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