quarto stato

lunedì 20 ottobre 2014

Finché il cuore regge, poesie

"Finché il cuore regge", finché sarà possibile andare "controvento alla festa della tribù / come l'asino sfuggito al basto / per un po' di azzurro nel sangue /". E' questo il senso, l'ulteriore sussulto racchiuso nel mio ultimo libro di poesie che segue "Costa fatica far girare il sole" e "Non siamo ombre": versi che parlano al cuore, alla ragione. Versi per resistere...


http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=1097635

RECENSIONI:

"Vladimiro Forlese è, tra i pochi poeti che conosco, quello che più sa suscitarmi emozioni e commozione. Forse perché i suoi versi si dipanano leggeri come fili di Arianna, per aiutare a non perdersi nel labirinto, spesso incomprensibile, della vita, e tenaci, perché non sempre è la luce, ad attenderci, dietro i taglienti angoli dell’inappartenenza. Fardello pesante, il nulla, anche se hai la poesia come compagna, quando ti manca il respiro e ti rifiuti di chiudere gli occhi per osservare, nelle periferie del profitto, gli alleati potenti della morte. E così ti accorgi che “gli abbracci chiedono coraggio” perché accetti di mostrare agli altri la tua nudità. E confrontarla con la loro, ponte sopra l’abisso dell’inappartenenza. Poesia di assenze, incolmabili assenze, anche se nei pensieri “ho la neve/che nevica dal tuo cielo”, perché non ci si può rassegnare a trasformare in memoria ciò che fino a ieri si è condiviso con chi si è amato. E tuttavia non resta altra difesa nei confronti dell’indifferenza della morte, se non parole che sappiano, come quelle di Vladimiro, sollevarsi in cielo come lo “sgolo di un gabbiano” e accompagnare il vento, dove c’è sempre qualcuno, ad ascoltare."
Vanni Spagnoli, poeta e scrittore

 "Raramente la copertina di un libro di poesie è capace di renderne le atmosfere, ma questa di Vladimiro Forlese, così apparentemente facile da decifrare, sa suggerire ambiguità e misteriosi voli dell’immaginazione: quel cuore che sfugge dalle mani della bambina come un palloncino strappatole dal vento è davvero un cuore in fuga o non, piuttosto, un cuore affidato, consegnato, regalato alla capacità di comprensione del lettore? Per saperlo, è sufficiente leggere le poesie di Forlese, forti e suggestive tutte, sorprendenti come “Zodiaco”, intelligenti come “Parole”, a volte strazianti. Questo poeta che ha “perso tutti i colori del mondo” sembra trovare l’unica salvezza nella sua “pagina-zattera” dove parole e suoni si rincorrono con una sorprendente riuscita stilistica: sono parole fatte di materia (pietrose pianure, argilla, crosta), di suoni (come nella espressione “lo sgolo del gabbiano” dove la ripetizione della G arriva dalla pagina con tutto il suo carico sonoro), di invenzione (concretezza del melograno, inchiostro di sabbia, zolfo notturno degli amplessi), sono viaggi di segni e di significati, sono odissee dell’anima. Le note dominanti di queste poesie sono il dolore per le assenze, soprattutto per l’assenza della compagna perduta, la malinconia del tempo trascorso, la pietà per il dolore altrui, la ribellione contro la morte, ma ad accompagnare il suo male di vivere, la sua “felicità infelice”, c’è anche una grammatica dei sentimenti aliena dall’autocompiacimento, lontana dal solipsismo, una grammatica di “dittonghi e bestemmie”, una sintassi che lo preservi dall’inaridimento del cuore: “si fa presto a divenire estranei”, scrive Forlese, ed è, la sua, una paura di perdersi. Ma accanto a quelle che definisce “corrosive meduse” il suo orizzonte si popola anche di sirene, parole non solo “ruvide” e “ubriache”, ma anche “lisce”, “compite”, “sincere”. Il poeta ha “la tenacia / del cappero aggrappato agli universi” e non rinuncia al suo canto perché anche se la “Signora Morte” ha stritolato il cuore con le sue unghie di acciaio, il suo canto è stato nutrito di “baci indelebili”. Ora, dopo tante assenze, dopo “quella” feroce assenza, “E’ vivere da vivi il canto che manca”. Raramente voce poetica è stata più viva di questa."
Nadia Berolani, scrittrice

"Leggendo, qualcosa talvolta, ormai raramente, comincia ad orientarsi lentamente fra lievi ondeggiamenti, quasi fosse l’ago magnetico della bussola, verso quel punto sfuggente che è invece baricentro d’un tutto ancora più sfuggente e mutevole. E pure così decisivo che quando è sfiorato o raggiunto convince che sia Poesia, quella che si va dipanando, parola dopo parola, e dispiegando in una diafana ma magica rispondenza fra forma, significato e densità. Così labile e fragile eppure capace di levitare senza frangersi o cadere sopra le parole, sopra le pagine, sopra ciò che rimane dei racconti. Un misterioso equilibrio che richiama quell’incerta idea di perfezione compiuta che si definisce arte e davvero non si sa che cosa racchiuda. E’ forse in ultimo la voce dei silenzi, che riesce a farsi percepire: un modulare laborioso e sommesso, ma non per questo inconsistente, anzi spesso potente della propria stessa potenza, che non necessita nè di sostegni, nè  di artifici. Superflui entrambi. Silenzi quali che siano: voluti, capitati o imposti. Voluti, quando la consapevolezza dell’inutilità del dire, in se ipsa, sfiata la voce sul nascere. Capitati, quando le circostanze (anche quelle non ricercate, per non trasformare la propria parola da fiotto elaborato dell’anima nella maschera deforme di Narciso alla rincorsa della vanagloria, insulsa e precaria) s’accaniscono a far sovrastare il rumore. Imposti, quando la circostanza ultima fionda il suo definitivo potere e tronca vitali (e alla memoria struggenti) eppure faticati colloqui e percorsi, e la parola si scontra con la propria radicale pochezza/ambiguità  (Stat rosa - o Roma, che sia - pristina nomine, nomina nuda tenemus). Dovendo definire, sono questi i tanti silenzi che “FInchè il cuore regge” di Vladimiro Forlese fa risuonare, strappati dal loro risposto rifugio, perchè infine si vuole non farsene assordare. E si affidano all’aria, essenza nell’essenza, non più propri ma di tutto e tutti coloro che respirano. E casualmente leggono, e casualmente incappano nelle sue parole, superbamente e garbatamente (quel garbo traguardo inevitabile dello sfociare pieno e maestoso di tanto lavorio estetico e tanta vita assorbita senza risparmio di sè) orchestrate ad aderire, pur riluttanti, cangianti ed approssimate com’è nella loro natura, a quei nuclei vivi, fragili e indomiti che siamo. Oltre ogni fatica, oltre ogni dolore, illusione, sforzo di comprensione,  così da consegnarsi nudi e inermi alla nuda verità, sua propria, del vivere. E alle nude parole per ciò che i silenzi infine rivelano loro: ho vissuto, vivo."
Antonella Salvo, poetessa