SCINTILLE
Quando il
Frecciabianca delle diciannove e quarantacinque superò l’ultimo scambio prima
dell’ingresso in stazione, Antonio Mirabella, macchinista da oltre vent’anni,
pugliese di origine ma bolognese per necessità, s’accorse che il treno era troppo veloce per effettuare l’avvicinamento al
binario, e la sosta prevista, senza dover innestare la frenata d’emergenza.
Perso in uno dei suoi soliti soliloqui, non aveva visualizzato per tempo la
spia che segnalava il malfunzionamento del rallentatore automatico. Mai, nella
sua lunga e onorata carriera, era incorso in una negligenza così grave. E che
avesse la testa per aria se ne accorsero anche i colleghi di lavoro.
Problemi d’amore,
come diceva lui per tagliar corto coi compagni, i quali, vedendolo da qualche
giorno pensieroso, scambiandosi
occhiatine furbe, gli chiedevano provocatoriamenmte se la signora moglie,
religiosa all’ossesso, avesse già iniziato la novena alla Madonna esiliandolo
dalla camera da letto. Quella sera, in verità, più che su certi suoi dissidi
coniugali che lo tenevano in apprensione, stava riflettendo del mondo e della
mancanza d’amore. Questione da massimi sistemi, che tradotta alla sua portata
equivaleva, perché gira che gira era quella la fissa, all’immancabile domanda:
si può stare senza una donna? In particolare non riusciva a capacitarsi delle
parole di un suo collega col quale aveva bevuto un caffè prima di salire sul
treno.
«Io ne faccio senza e vivo bene, anzi
benissimo!» gli aveva detto quello ridendo.
Come poteva essere
che si potesse vivere bene così, stava chiedendosi raspando con le dita tra i
pochi capelli superstiti, che s’accorse d’aver superato il punto in cui doveva
rallentare il convoglio.
– “Urca boia… dove ce
l’ho la testa. Mannaggia a me e mannaggia alle donne!” si disse armeggiando in
preda al panico sul quadro di comando.
– “E mannaggia a quel
salame… dimmi tu se non è da strampalati, vivere così, senza scintille!”.
In prossimità del
binario, pigiò sul pulsante rosso sul quale campeggiava la scritta “freno
d’emergenza” e sporgendo la testa fuori dal finestrino pensò: – “Che Dio me la
mandi buona!”.
Allo sfilare del
treno, le persone in attesa nella stazione o sui marciapiedi limitrofi al terzo
binario dovettero coprirsi le orecchie con tutte e due le mani nell’attimo che
il macchinista azionò i freni del convoglio. Sotto i loro piedi tremò la terra,
ma sorte peggiore toccò ai malcapitati che se lo videro sfilare davanti respirando
a pieni polmoni l’acre odore di ferro incandescente.
Feroce, come l’urlo
di un animale mortalmente ferito, l’assordante stridìo dei metalli inondò di
scintille la scialba litania della sera, sospendendo per un attimo la vita di
ciascuno. Una scena inquietante, sinistra, luciferina, che ricordava certe
epiche copertine della Domenica del Corriere illustrate
da Walter Molino, con il locomotore trasfigurato nel mostro d’acciaio
che, imbrigliato nella sua corsa impetuosa, ruggisce e vomita sugli uomini lampi
di fuoco prima di essere vinto.
Affatto epico,
invece, fu ciò che dall’esterno del treno nessuno potè udire e vedere, vale a
dire il coro di spaventati oh!
gridato all’unisono dai passeggeri e le conseguenze che la dura e alquanto
improvvida frenata comportò per quelli nelle carrozze già in fila, uno dietro l’altro, e pronti a
scendere, sballottolati prima in avanti, poi indietro e ancora in avanti come tanti pupazzi privi
di volontà.
Insonnolito
dal
viaggio, il professor Valerio Ortese, quarantacinquenne docente
universitario e scrittore di un certo successo, aveva da qualche secondo
preso posto nello stretto
corridoio che separava la doppia fila di sedili. Stufo del viaggio, non
vedeva
l’ora di scendere. Per questo, contravvenendo alle sue abitudini,
contagiato
dalla fregola che coglie, in prossimità delle stazioni, i viaggiatori
prossimi
ad abbandonare le vetture, lasciò in anticipo il suo posto. Quando
scoppio il
finimondo, era intento a sbirciare fuori dal finestrino. Dapprima
barcollò come
tutti, ma non avendo alcun appoggio a portata di mano, per la brusca
frenata
volò in avanti assieme al trolley che stringeva con la mano destra,
planando
col petto prima addosso a un anziano signore e, poi, di sponda, con la
faccia
dritto sulla schiena di una giovane donna. Nel secondo violento urto, fu
il suo
naso ad avere la peggio, schiacciato tra la montatura degli occhiali e
la
scapola dell’incolpevole passeggera su cui era atterrato.
Piegato sulle
ginocchia, dolorante prese a cercare con le palme delle mani gli occhiali
finiti sotto qualche sedile o tra i piedi di chi gli stava attorno. Rialzatosi,
dopo aver con disappunto constatato l’irreparabile danno alla montatura e ad
entrambe le lenti, mortificato profuse le sue scuse ai due occasionali compagni
di viaggio su cui era malamente ruzzolato. Il vecchio, sdegnato per il colpo
subito, rispose emettendo uno stizzoso grugnito. La donna, invece, guardandolo
negli occhi, forse con l’intento di
sdrammatizzare sull’accaduto, scoppiò a ridere. Però, vedendo che lui era
rimasto serio, appena la fila si mosse, accostandolo gli offrì il braccio.
«Scusi, prima sono
stata sfacciata, non volevo offenderla, ma lei era così buffo con la mano sul
naso e i capelli tutti per aria. Venga, si appoggi a me, mi sembra ancora
intontito dalla botta. Ce la fa a scendere?».
«Sì, credo di sì. Fa
male, forse servirebbe del ghiaccio. Spero non sia rotto».
«Ma no, è solo una brutta botta, se fosse
rotto colerebbe sangue come una fontana e, in più, avrebbe il naso storto».
«Senta, vorrei
pregarla di un’altra gentilezza…».
«Dica, senza
problema. Di che si tratta?».
«È che senza
occhiali sono perduto. Mi guiderebbe nel discendere i gradini? Ho paura di
mettere un piede nel vuoto e…».
«Non si preoccupi,
l’aiuto io. Scendo e la tengo per mano».
«Scusi ancora, sono
proprio un imperdonabile zotico, non le ho nemmeno chiesto se lei si è fatta
male, se le duole la schiena».
Rapita dai modi
eleganti e dall’eloquio forbito dell’uomo lei, intenerita dalla sfortuna in
cui era incappato quel bel cucciolone ferito, ignorando la leggera fitta di
dolore che le pizzicava la spalla, rispose: «Niente di che preoccuparsi, sto
bene. Ecco… siamo arrivati all’uscita. Adesso io scendo. Appena sono giù, lei
mi passa la valigia che poi io le prendo la mano per aiutarla a scendere».
Poggiati i piedi a
terra lui, rivolgendosi alla giovane donna, disse: «Non so come avrei fatto
senza il suo aiuto. Spero un addetto della stazione mi accompagni a trovare un
taxi».
«Oddio!… pensavo
avesse qualcuno, una moglie, un amico, che l'aspettava qui al binario o fuori della
stazione».
«Magari… non ho nè moglie nè amici. Sono a
Trento solo di passaggio, per lavoro. Domattina ho un incontro all’università
con docenti e studenti del Dipartimento di Sociologia della Letteratura e nel
pomeriggio dovrei ripartire per Roma».
«Allora lei adesso
sarebbe andato in albergo, e così?».
«Sì, mi hanno
fissato una stanza all’Hotel America e prenotato un tavolo in un ristorante nei
dintorni dell’hotel. Il nome l'ho appuntato nella mia agenda».
«Ho capito…» stava dicendo la giovane donna che lui intervenne.
«Scusi se la
interrompo, almeno prima di lasciarla permetta io mi presenti. Sono Valerio
Ortese, vengo, come avrà intuito, da Roma che è anche la città dove abito e
lavoro».
«Sì, certo… piacere,
io mi chiamo Laura Calliari, vengo da Verona, ma abito e lavoro qui a Trento. Scusi signor Ortese,
lungi dall’essere invadente, l’albergo dove ha prenotato è vicinissimo alla
stazione. Per arrivarci non le serve il taxi. Se non ha difficoltà a
camminare l’accompagno io. Mi sa che è meglio, altrimenti su questo binario lei
ci fa notte aspettando arrivi qualcuno ad aiutarla».
«Signorina Calliari…
giusto? Scusi, io per i nomi ho qualche difficoltà, è sicura di non scombinare i suoi
programmi? Mi seccherebbe approfittare. Magari è stanca e certamente ci sarà
qualcuno ad attenderla per cena».
«Non si preoccupi,
lo faccio volentieri e se proprio ci tiene a saperlo, non ho nessuno in
pensiero per me. No! le sto dicendo una bugia, qualcuno ci sarebbe, si chiama
Ozzi, il mio gatto, però stasera è a casa di amici, coccolato e viziato dai
loro bambini».
«Allora faccia la
buona Samaritana sino in fondo: mi accompagna prima in albergo e poi – uh
maledetto naso, se fa male! – e poi, le
dicevo, si ferma a cena con me. Non vedo altro modo per sdebitarmi con lei. Su,
signorina Laura, spero non le dispiaccia se l’ho chiamata per nome, mi dica di
sì, mi permetta di essere all’altezza della sua gentilezza!».
Indecisa se
accettare o meno l’invito, Laura guardandolo rispose: «Mi dia qualche secondo
per pensarci, intanto raggiungiamo l’uscita. Nell’atrio della stazione ci sono
i telefoni, almeno una chiamata ai miei amici devo farla. Sa, con un gatto non
si sa mai come vanno le cose».
«Bene, sono però
certo che i suoi amici non le diranno di no. A proposito, ha fatto caso a
quante scintille sono volate in aria quando il treno ha iniziato a frenare?».
«Eccome, sembrava di
essere nell’officina di un fabbro!» rispose la donna.
«Peccato per tutto
quello sbattimento e il mio ruzzolone. Era da tanto che non mi capitava di
vedere una tale quantità di stelline» disse Valerio allusivo stringendo con la
mano il braccio della donna.
Risalito il
sottopassaggio, appena sbucarono nell’atrio, Laura si fermò di botto.
«Scusi, io andrei a
telefonare. Mi aspetti qui, ci metto un momento» e, fatto qualche passo,
voltandosi aggiunse con un gran sorriso: «Solo un attimo!...».
– “Sono certo che accetta… è un po’ giovane, ma
che importa… e che bella, due occhi meravigliosi!” stava dicendosi il
professore che, proprio a due passi da lui, un gruppo di persone, tutti con
addosso la divisa da ferroviere, anche loro risaliti dal sottopassaggio,
presero a conversare animatamente interrompendo il suo fantasticare sui
possibili sviluppi della serata.
«No, un bel rapporto
a quel fesso non glielo leva nessuno, ma come si fa?» disse uno degli uomini.
«Il collega di
Bologna mi ha detto che sta attraversando un momento difficile, si sarà
distratto…» aggiunse un altro.
«Distratto? Ho fatto
un capitombolo che lo sa solo Dio come non mi sono rotto il collo!» ribattè il
primo.
«Senti, pare il
problema sia sua moglie…» disse il secondo uomo che aveva parlato.
«Che fa, gli mette
le corna? Mi sembra il minimo, gran pezzo di cornuto!» imprecò il primo.
«E’ proprio il
contrario, sembra che non gliela dia più, per questo è così fuori di testa» precisò il secondo.
«Oddio, poveretto,
deve averle piene da scoppiare le sacchette! A giudicare da come è entrato in
stazione e dalle scintille, tira aria di tempesta…» disse ironico il terzo
ferroviere accompagnando le parole al gesto dell'ombrello e a una gran risata.
Al professore sfuggì
il resto della conversazione avendo il terzetto ripreso a camminnare. Quel poco,
però, che aveva sentito gli mise addosso un non so che di temerario. A lui la
sfortunata disattenzione del macchinista gli stava invece propiziando una bella occasione. – “Scintille o non scintille tocca a me ora saper
accendere il fuoco. Peccato per il naso” si disse massaggiandosi la
parte ancora dolorante.
«Eccomi, professore,
tutto a posto: il gatto è tranquillo, sono libera. Accetto il suo invito!» esclamò Laura ondeggiando la testa riccioluta e
gli occhi luminosi, accesi dalla contentezza.
«Non sa quanto mi fa
felice e, la prego, non mi chiami professore. Le sembro così vecchio da voler
sottolineare le distanze? Suvvia, mi chiami Valerio e… se è d’accordo, quando
saremo a cena, le chiederò di brindare. Non indovina a cosa?» disse lui euforico.
«Non saprei…
Valerio. A cosa vorrebbe brindare?» domandò lei con una punta di imbarazzo
nella voce e le palpebre ballerine.
«Alle scintille,
alla pioggia di stelle che mi ha permesso di conoscerla. Venga, mia
salvatrice, venga…evviva le scintille!».
Vladimiro Forlese