C'è un settore industriale per il quale la crisi sembra essere già
finita, è l'industria bellica europea che, dopo il calo del 2010, vede
aumentare del 18,3% gli ordinativi ai paesi dell’Unione Europea per
esportazioni di sistemi militari. Nel 2011 (ultimo dato disponibile) la
domanda di armi rivolta all'Ue ha superato i 37,5 miliardi di euro
(erano 31,7 miliardi nel 2010). I dati sono diffusi dal sito Unimondo.org, che li ha elaborati dall'ultimo rapporto dell'Ue.
Da qui si apprende che crescono soprattutto le autorizzazioni
all'esportazione di armi (“licences”) verso le zone di maggior tensione
del pianeta (Medio Oriente e Asia), mentre diminuiscono quelle verso gli
Usa. Aumentano anche le consegne effettive di materiali militari:
ma su queste il Rapporto dell’UE non presenta i dati perché diversi
paesi (tra cui Germania e Regno Unito) non li hanno resi noti.
Ma anche l'Italia, secondo l'articolo di Giorgio Beretta pubblicato su
Unimondo.org, non eccelle in trasparenza.“Forse – si legge - per
adeguarsi allo standard tedesco, il governo tecnico italiano ha pensato di manipolare un po’ le cifre:
a fronte degli oltre 2,6 miliardi di consegne riportate nella Relazione
governativa nazionale, i funzionari governativi hanno riferito all’UE
solo poco più di 1 miliardo. Un “errore” che solleva più di qualche
interrogativo sulla trasparenza del Governo Monti in questioni
militari”. Inoltre, secondo Unimondo, "gli ultimi due governi italiani
(Berlusconi e Monti) appaiono molto simili riguardo alla comunicazione
sull’export di armi: non segnalando all’UE le specifiche tipologie nelle
consegne di armamenti hanno entrambi mantenuto un prudente riserbo sui
sistemi d’arma effettivamente esportati dall’Italia".
Più nel dettaglio, i dati riportati dal sito di informazione indipendente, segnalano una forte ripresa delle esportazioni europee verso i paesi asiatici
(dai 4,7 miliardi del 2010 agli oltre 5,5 miliardi di euro del 2011) e,
in particolar modo verso il Medio Oriente (da 6,6 miliardi a quasi 8
miliardi di euro). In crescita anche le esportazioni verso l’Africa
sub-sahariana che superano i 493 milioni di euro. In calo sono invece soprattutto le autorizzazioni all’esportazione verso l’America
settentrionale (erano 4,6 miliardi nel 2009, sono 3,6 miliardi di euro
nel 2011), l’America centro-meridionale, oltre che verso i paesi del
Nord Africa verso i quali però, nonostante il 2011 sia stato l’anno
delle rivolte popolari della cosiddetta “primavera araba”, i paesi
europei hanno autorizzato esportazioni di armamenti per oltre 1,2
miliardi di euro.
Nel 2011, il principale cliente delle industrie militari europee non sono gli Stati Uniti (solo 3,2 miliardi di euro a fronte dei 3,5 miliardi del 2010 e dei 4,3 miliardi nel 2009), ma l’Arabia Saudita:
alla monarchia saudita i paesi europei hanno autorizzato esportazioni
di sistemi militari per oltre 4,2 miliardi di euro, di cui soprattutto
dal Regno Unito (oltre 2 miliardi) per i caccia Eurofighter Typhoon,
“una commessa dai contorni alquanto torbidi – osserva Unimondo - e che
riguarda anche le aziende italiane”. Restando nell’area, spiccano le
commesse degli Emirati Arabi Uniti (1,9 miliardi di euro): in una
parola, semplifica ancora il sito di informazione pacifista, “le
monarchie assolute mediorientali sono i principali clienti
dell’industria armiera europea e le armi continuano ad essere la merce
di scambio privilegiata dei paesi europei per pagare la propria bolletta
energetica”.
Non è un caso, quindi – scrive ancora Beretta - che nonostante le
rivolte popolari del 2011, siano state autorizzate esportazioni di
armamenti anche ad paesi con ampie riserve energetiche e di risorse
minerarie come l’Algeria (815 milioni di euro di cui oltre la metà
dall’Italia) e il Marocco (335 milioni di euro, soprattutto dalla
Francia). Ma stupiscono – vista la violenza della repressione e del
conflitto – le autorizzazioni all’esportazione di armi europee verso
l’Egitto (303 milioni di euro), la Tunisia (16,5 milioni) e addirittura la Libia che era sotto embargo nel 2011 (34 milioni di euro di cui 17 milioni di euro tra missili, razzi e bombe dalla Francia).
Le armi continuano ad essere merce esportata dai paesi dell’UE anche in altre zone di forte tensione come India (1,5 miliardi di euro) e Pakistan (410 milioni di euro)
e finanche l’Afghanistan – un paese tuttora sotto embargo parziale di
armi – che nel 2011 ha visto un record di importazioni militari dai
paesi UE: oltre 465 milioni di euro di cui 346 milioni di euro
dall’Estonia per generici “energetic materials”.
di rassegna.it
Analisi
Il caporalato tra passato e presente
Il caporalato è un fenomeno apparentemente antico che caratterizza
tuttora le campagne italiane. Non solo quelle meridionali, dove esso
sembra più appariscente, ma anche quelle del Centro-nord del Paese.
Credevamo che tale metodo di ingaggio della manodopera si fosse
attenuato nel tempo, invece è tornato negli ultimi quindici-venti anni
in forme particolarmente virulente.
Come è stato possibile? Ci sono delle differenze sostanziali tra il
caporalato del passato e quello “globalizzato” dei giorni nostri.
Quest’ultimo si è adeguato e adattato ad alcuni radicali processi
sociali in atto, in particolare l’erompere dei flussi migratori; e ha
prodotto in molti casi una degenerazione dello sfruttamento in
schiavismo. C’è un profonda differenza tra i braccianti di oggi e quelli
di ieri, quelli di Giuseppe Di Vittorio e di Placido Rizzotto, quelli
che hanno lottato per l’imponibile di manodopera, hanno partecipato alle
occupazioni delle terre e si sono scontrati contro condizioni di lavoro
e di vita inique.
Un tempo i “cafoni” condividevano con il caporale il medesimo orizzonte
sociale e culturale, la medesima lingua, le medesime contrade (non
sempre, come vedremo nell’ultimo paragrafo, eppure in buona parte è
stato così). Pur schierati su versanti contrapposti, appartenevano allo
stesso paese, o comunque alla stessa provincia, alla stessa regione.
Pertanto venivano a stabilirsi con il caporale, e quindi con il
proprietario terriero alle sue spalle, dei rapporti di forza codificati.
Certo, c’erano la fame, la malaria, la mortalità infantile, i soprusi,
il sotto-salario, la repressione sistematica di ogni moto di
ribellione... La “civiltà contadina” è stata anche questo, e non voglio
affatto minimizzare un cumulo di violenze peraltro vittima di oblio
nell’Italia contemporanea.
Tuttavia oggi accade qualcosa di profondamente diverso. I braccianti
stranieri, soprattutto quando stagionali, percepiscono le nostre
campagne come una “terra di nessuno” con cui non hanno niente a che
spartire: una terra di cui non condividono la lingua, non conoscono le
leggi scritte e quelle non scritte. Anche quando si insediano nelle
borgate e nei casolari intorno ai paesi, non c’è alcuna forma di
integrazione con il loro tessuto urbano e sociale. C’è una distanza
siderale: ogni chilometro ne vale cento; ed è proprio questa
estraniazione a generare la profonda vulnerabilità che alimenta lo
sfruttamento più crudo.
Benché tutto il caporalato non sia riconducibile a forme di
neo-schiavismo, sempre più spesso esso si manifesta in casi eclatanti di
riduzione in schiavitù, in vari gradi di “soggezione continuativa”,
come questa viene definita nell’articolo 600 del Codice penale. “La
riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione”, vi si legge, “ha
luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia,
inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di
inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o
mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi
a chi ha autorità sulla persona.” Riproducendosi su larga scala, e per
migliaia di lavoratori, tale “soggezione continuativa” diviene elemento
strutturale del lavoro agricolo (e, in misura meno appariscente ma
ugualmente grave, in altri ambiti come l’edilizia).
I nuovi caporali
Oggi l’organizzazione gerarchica del caporalato è composta da una fitta
reti di capi, caporali e sotto-caporali spesso in contatto tra loro da
regione a regione. Come racconta Yvan Sagnet, portavoce dei braccianti
che hanno organizzato lo sciopero di Nardò nell’estate del 2011 e oggi
impegnato nella Flai-Cgil, in Puglia: “ci sono i caporali e ci sono i
sotto-caporali. Perché i caporali non possono gestire tutto. Il caporale
può avere quattro o cinque campi di raccolta e manda i suoi assistenti a
gestire i lavoratori. Ha una squadra, ha gli autisti, degli assistenti,
ha i cuochi.
A Nardò c’era il ‘capo de capi’, era un tunisino. Poi c’erano altri
caporali che lavoravano per lui. Ci sono varie tipi di nazionalità in
particolare africani. Il capo dei capi manda il caporale a gestire gli
altri capi. Al capo dei capi spetta una percentuale su ogni cassone, ma
il grosso rimane al caporale. Questi è quasi autonomo rispetto al primo
livello. Nell’agro di Nardò, c’erano tra i 15 e 20 caporali e
controllavano tra i 500 e i 600 lavoratori”.
In cosa le condizioni descritte da Sagnet differiscono da quello che
possiamo definire “caporalato classico”? Gli ambiti di sfruttamento,
minaccia e ricatto sembrano essersi ampliati, sono diventati sempre più
capillari nelle varie sfere della vita quotidiana dei lavoratori
agricoli, che dipendono in tutto e per tutto dai caporali, non avendo
altre reti a cui far riferimento. Il controllo dei caporali si estende
spesso agli stessi alloggi in cui dormono. È questa la principale
differenza tra vecchie e nuove forme del caporalato.
Un ulteriore elemento di novità del caporalato “globale” rispetto a
quello “classico” è che la provenienza geografica dei caporali è
divenuta una variabile che incide fortemente sul reclutamento dei
braccianti. Sempre Sagnet racconta che “il mio caporale era sudanese. E
qui funziona per nazionalità, prima vengono quelli della nazionalità del
caporale, e poi gli altri. Funziona così anche con i tunisini, con i
nigeriani”. E lo stesso accade per i lavoratori provenienti dall’Europa
dell’est, a volte vittime di condizioni di sottomissione ancora
maggiori. Come detto, i nuovi braccianti agricoli non possono far
riferimento a quelle che in sociologia si chiamano reti sociali “dense”.
Lo sfruttamento avviene in condizioni di profonda solitudine, o comunque
di isolamento. Ovviamente, negli ultimi vent’anni il nuovo caporalato
non solo si è intrecciato con i nuovi flussi migratori, traendo
vantaggio dal bisogno di occupazione di larghe masse di lavoratori. È
stato oltremodo favorito dalla legislazione in materia di immigrazione.
La Bossi-Fini è stata spesso un potente alleato dei caporali, rendendo i
lavoratori (specie se sprovvisti di un permesso di soggiorno) oltremodo
ricattabili davanti ai propri sfruttatori.
Tantissimi lavoratori sono stati denunciati come “irregolari”, dopo
essere stati sfruttati dai loro stessi caporali. Tantissimi altri si
sono affidati ai “signori della regolarizzazione”, offrendo diverse
migliaia di euro per un permesso di soggiorno (il semplice pezzo di
carta) in cambio di un lavoro che rimaneva il medesimo. Quando i
braccianti abitano in casolari isolati o in tendopoli auto-costruite
lontane dai centri abitati, tale invisibilità alimenta la loro
vulnerabilità. È alla luce di tutto ciò che vanno valutate le nuove
misure varate nel settembre del 2011 (introduzione del reato di
caporalato) e nel luglio del 2012 (concessione del permesso di soggiorno
ai lavoratori che denunciano i propri sfruttatori).
Tali misure sono di enorme importanza. Per la prima volta in Italia
viene formulato giuridicamente il concetto di grave sfruttamento
lavorativo: qualcosa cioè che, anche qualora non giunga alle forme
estreme di riduzione in schiavitù, è comunque molto più grave del
semplice “lavoro nero” o della sola evasione contributiva. E per la
prima volta viene offerta una via d’uscita a tutti quei lavoratori
ricattati dalla condizione di clandestinità. Tuttavia tali norme possono
divenire davvero efficaci, solo se la cappa di vulnerabilità e
invisibilità verrà rotta anche sul piano culturale, sociale, economico,
sindacale.
La lezione di Di Vittorio
Tuttavia tra passato e presente ci sono anche profonde analogie da cui
trarre importanti insegnamenti. Non solo la giornata-tipo di un
bracciante del ventunesimo secolo è tremendamente simile a quella di un
bracciante dei primi del Novecento (basta leggere ad esempio le
testimonianze “di ieri” raccolte in “La memoria che resta. Vita
quotidiana, mito e storia dei braccianti nel Tavoliere di Puglia” di
Giovanni Rinaldi e Paola Sobrero, Edizioni Aramirè, per accorgersi come
l’universo materiale, la fame, l’assenza di acqua, l’inospitalità dei
casolari, i metodi del dominio siano spesso i medesimi).
C’è un’altra analogia da interrogare, e in buona parte porta a vedere
sotto nuova luce quanto detto finora: anche ai primi del Novecento il
lavoro agricolo era strettamente intrecciato ai flussi migratori. Non
erano flussi globali, beninteso, bensì intraregionali o al massimo
interregionali. Ma in alcuni casi mettevano a dura prova - proprio come
oggi - il rapporto tra lavoratori “locali” e “forestieri”. Giuseppe Di
Vittorio prestò sempre molta attenzione al nesso tra lavoro e flussi
migratori, come dimostra un recente libro edito da Donzelli, “Le strade
del lavoro”, a cura di Michele Colucci. Vorrei porre l’attenzione sul
primo scritto raccolto nel volume, una lettera indirizzata al direttore
del “Corriere delle Puglie” nell’aprile del 1914 a proposito dei fatti
di Colapatella. Cosa era accaduto? Nella masseria di Colapatella, a
pochi chilometri da Cerignola, in provincia di Foggia, c’era stato un
sanguinoso scontro tra lavoratori locali e lavoratori “forestieri”
provenienti dalla provincia di Bari, che aveva lasciato in mezzo ai
campi un morto e diversi feriti. Alle spalle di tanta violenza tra gli
stessi lavoratori, vi era la particolare struttura del lavoro agricolo
nella Puglia di primo Novecento.
Nonostante le profonde differenze tra ieri e oggi già analizzate, in
genere si pensa che il “lavoro migrante” sia approdato in agricoltura
solo negli ultimi quindicivent’anni con l’arrivo nelle nostre campagne
dei braccianti stranieri, africani o esteuropei, che hanno rimpiazzato i
vecchi braccianti pugliesi, siciliani, calabresi; e si deduce che
l’intreccio tra vulnerabilità dei nuovi arrivati, scarsa
sindacalizzazione, paghe da fame e casi di grave sfruttamento lavorativo
sia una fatto relativamente recente. Come se prima, un secolo fa, a
lavorare la terra e a raccogliere i suoi frutti, fossero unicamente
braccianti stanziali, residenti a pochi chilometri dai fondi agricoli,
“etnicamente” compatti. Molte volte non era affatto così.
Il Tavoliere era una complessa area d’immigrazione anche un secolo fa.
Solo che allora gli “stranieri” che approdavano nell’agro di Cerignola
perché a casa loro soffrivano la fame provenivano dalle altre province
pugliesi, seguendo massicce migrazioni stagionali molto simili a quelle
attuali. Da dove nasceva il dissidio? Mentre i braccianti cerignolani
erano da tempo organizzati in una Lega combattiva, che aveva ottenuto
(almeno in parte) il rispetto dei propri diritti e un sostanziale
aumento delle retribuzioni, i “forestieri” provenienti dalla provincia
di Bari - scarsamente organizzati - accettavano di lavorare anche per
40-50 centesimi in meno al giorno, all’epoca una cifra enorme.
Ovviamente i proprietari terrieri, e i loro “suprastanti”, avevano tutto
l’interesse a ingaggiare questi ultimi per indebolire la Lega. Da qui
gli scontri sanguinosi.
L’intelligenza di Di Vittorio fu nell’intuire che il lavoro migrante è
connaturato all’essenza stessa dell’agricoltura stagionale, e che ogni
forma di organizzazione sindacale - nata per unire tutti i lavoratori -
ne avrebbe dovuto tenere conto. Era inutile accusare i nuovi arrivati di
crumiraggio: il problema era semmai trovare il modo di ricostituire
un’alleanza plurale tra diversi lavoratori, informandoli sui loro
diritti soprattutto nelle province di partenza, interpretando lo stesso
sindacato come una struttura “migrante” dal momento che deve avere a che
fare con dei lavoratori “migranti”. Ma di quale Puglia stiamo parlando,
di quella di un secolo fa o di quella dei giorni nostri? Stiamo
parlando di entrambe, e risiede proprio in questo il grande interesse
degli scritti di Di Vittorio. Da qui occorre ripartire per disegnare
nuove forme di intervento e analisi. Lottare contro il caporalato vuol
dire innanzitutto comprendere il mondo che ci circonda. Cogliere tutti i
nessi possibili tra passato e presente.
di Alessandro Leogrande
dal sito di http://www.rassegna.it/articoli/2012/12/21/95486/il-caporalato-tra-passato-e-presente
[il pezzo qui riprodotto è un estratto di Agromafia e caporalato, il primo
rapporto sull'Italia. La ricerca dell'Osservatorio Placido Rizzotto
presentata dalla Flai Cgil, il sindacato del settore agroalimentare.
L'illegalità è in continua espansione. 400mila persone vittime del
caporalato. 27 clan nel business dell'agro- ed ecomafia. Il rapporto si
può scaricare integralmente in formato digitale (pdf) nello shop di rassegna.it, al prezzo di 2,99 euro].